Kodak dichiara bancarotta: di chi è la colpa?
La Kodak, fondata da George Eastman nel 1888, dichiara bancarotta. Potrebbe la sua gloriosa parabola ricalcare, almeno in parte, quella del cinema?
19 Gennaio 2012. Prendete nota di questa data, perché quello che i Maya sembrano aver riservato al mondo sul finire dell’anno in corso, per il cinema potrebbe essere appena accaduto. La Eastman Kodak Company dichiara bancarotta ed entra in amministrazione controllata (via Il Sole 24 Ore). Il CEO Antonio Perez, dopo essersi consultato col consiglio d’amministrazione, formalizza il cosiddetto Chapter 11. E il sipario si cala.
Ci rendiamo conto che per molti, in un periodo come questo, possa semplicemente trattarsi di una notizia ordinaria. Tanto più che la Kodak navigava in brutte acque già da tempi meno critici per il sistema tutto. Perché allora così tanta enfasi su una notizia del genere? E perché su queste pagine? Nostro malgrado, tenteremo di spiegarvelo nelle righe che seguono. Non prima, però, di aver fatto un rapido e quanto più compendioso punto della situazione sulla storia di una delle compagnie che più ha influito su questa variopinta industria.
Volendo schematicamente riassumere in poche, laconiche battute l’impatto di Kodak nel settore della fotografia e del cinema, diciamo che è lei ad avere rispettivamente avuto un ruolo da unica protagonista nel: rendere la fotografia un fenomeno di massa; agevolare in maniera determinante lo sviluppo di Hollywood e dell’home video; creare la fotografia digitale.
George Eastman, nel 1888, registra il marchio Kodak perché afferma di avere un ottimo rapporto con la lettera K. In più ritiene che un marchio debba essere corto e che “la sua pronuncia non debba essere fraintesa, perché con esso ne andrebbe distrutta l’identità di ciò a cui quel marchio rimanda“. Ma soprattutto, un marchio “non deve significare nulla“.
Nel 1900 commercializza il Brownie, la prima vera macchina fotografica a basso costo per gli acquirenti (1 dollaro). Non a caso diviene subito un successo di massa.
Nel 1935 la svolta. La loro prima pellicola a colori, denominata Kodachrome, entra in commercio e ci rimane fino al 2009 – nei più disparati formati. E’ la prima pellicola a colori ad imporsi a livello capillare. Riguardo alla differenza tra questo tipo di pellicola e la fotografia digitale, riportiamo da Wikipedia uno stralcio interessante: “Kodachrome racchiude in sé più poesia, delicatezza ed eleganza. Con la fotografia digitale è possibile acquisire tanti benefici, ma bisogna passare dalla post-produzione. [Con Kodachrome] Tiri fuori la pellicola dalla macchina e le immagini sono già magnifiche“.
Con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale – e la pellicola a colori che oramai ben cammina sulle proprie gambe… anzi, corre! – Kodak entra anche in un nuovo mercato: quello dei raggi X. Inizialmente si tratta di produrre una pellicola che stabilisca quante radiazioni abbiano assimilato gli scienziati coinvolti nel Progetto Manhattan. Successivamente, grazie ad un’ulteriore, innovativa tecnologia, la micropellicola, Kodak permette all’esercito britannico di infilare 37 sacchi di V-mail all’interno di un solo sacco. Tuttavia, all’epoca, i veri soldi la compagnia di Rochester li fa più che altro stampando tali pellicole.
Alla fine degli anni ’60 – dopo che qualche anno prima Kodak va oltre, catturando la prima foto della Luna vista dallo spazio a bordo dell’Apollo 11 – questa assurda compagnia conta un capitale di oltre 4 miliardi di dollari (50 miliardi ai giorni nostri) e 100 mila dipendenti.
Ma la sua attività pionieristica non accenna a fermarsi. Nel 1975, infatti, Steven Sasson, ingegnere alla Kodak, dà letteralmente vita alla prima immagine mediante un dispositivo a carica accoppiata (ad una risoluzione che oggi fa sorridere, ossia 0.1 megapixel), ossia un sensore in grado di catturare l’immagine e trasformarla in un segnale elettrico di tipo analogico. E’ la genesi della fotografia digitale. Sembra incredibile, ma è così. Solo 11 anni dopo, nel 1986, Kodak è la prima al mondo a sviluppare tale tecnologia, integrandola definitivamente, poco dopo, nella primissima macchina fotografica digitale di sempre, la DCS100. E’ il 1991. Mentre il prezzo è di 30 mila dollari.
Dopo aver scoperchiato l’ennesimo vaso di Pandora, però, Kodak non riesce a tenere il passo di una tale innovazione. Le compagnie giapponesi, più avanti nella produzione high-tech, marginalizzano la compagnia statunitense, che di fatto non brillerà mai in questo segmento dell’industria.
Se eccepiamo la creazione, insieme a Sanyo, del primo schermo OLED nel 1999 (frutto peraltro di un progetto di un loro ricercatore, datato 1979), il resto della storia non rende granché onore al glorioso passato di Kodak. Una compagnia che, come dicevamo, ha inciso in maniera determinante sullo sviluppo del cinema, più di quanto osiamo immaginare: si deve a lei, giusto per dirne una, lo standard dei 35mm. Ma in generale, tanti, troppi film, sia per il cinema che per la TV, sono impressi su pellicole Kodak.
Attraverso un blog straniero parecchio interessante, apprendiamo quella che ad oggi ci pare una quanto mai infelice uscita dell’ex vicepresidente della Kodak, Don Strickland:
Siamo stati i primi a sviluppare una fotocamera digitale consumer. Kodak avrebbe dovuto lanciarla nel 1992. Non riuscimmo ad ottenere l’approvazione per il lancio per paura di cannibalizzare la pellicola.
A fare il paio con tale citazione, la stessa fonte riprende un’altra frase, quasi un’aforisma. Ad esternarla fu Steve Jobs:
Se non ti cannibalizzi da solo, lo farà qualcun altro.
Questa è la differenza tra chi ha larghe vedute e chi invece si preoccupa esclusivamente e mediocremente dei profitti. A scuola non insegnano ad anticipare i tempi, ecco perché, evidentemente, gli “esperti” e “acculturati” membri del direttivo della compagnia di Rochester non riuscirono stavolta a vedere più in là del proprio naso. Furono i primi ad indicare il giusto sentiero, salvo poi tirarsi indietro. Non sarà un perfetto esempio di chi predica bene e razzola male, ma qualcosa del genere si riesce ad intravedere.
Pe paura di solcare un nuovo, inesplorato mare, hanno preferito il proprio acquitrino. Solo che questo, ahinoi, era destinato a prosciugarsi. Se Apple fosse stata colta dallo stesso terrore, oggi probabilmente, per non mettere i bastoni tra le ruote all’iPod, l’iPhone non esisterebbe. O forse sì, ma magari i primi si sarebbero chiamati Samsung, Sony o chi per loro. E per l’iPod sarebbe finita comunque.
Forse ci si domanderà perché, in un blog votato al Cinema, ci si prenda la briga di redigere un articolo come questo. E come spesso accade, la domanda è già contenuta nella risposta, almeno per metà. Perché questo è blog è davvero votato al cinema, e lo è anima et corpore – come di conseguenza lo siamo noi che ci scriviamo. Mentre in molti si sbucciano le dita, lasciando le proprie unghia conficcate nel muro, e digrignano i denti dopo l’ennesimo voto o semplice considerazione che non gli sono andati a genio, tanti sanno che il medium cinematografico è esponenzialmente più grande di così.
Gli antichi, ben più attenti di noi, avrebbero ravvisato l’ennesimo presagio in questo crollo di una delle compagnie più influenti nella storia del cinema. Se qualcuno dovesse indicarvi una major, additandola quale rovina di un mondo che forse non esiste nemmeno più, pensate che questo mezzo sta cambiando ancora più in profondità. Oramai sono sempre di più quelli che, pur con le dovute riserve, vedono proprio nelle fotocamere digitali il futuro dell’industria.
E prima di pensare che una simile uscita centri col nostro discorso come i cavoli a merenda, ci si conceda qualche minuto per riflettere. Già da qualche anno sono parecchi a sostenere che il cinema non possa più campare esclusivamente sulle spalle delle grosse, enormi produzioni. Non a caso il mercato indipendente è in crescita sempre maggiore, rappresentando un fenomeno fiorente anziché no.
Festival, piattaforme online e via discorrendo sono canali che un tempo, semplicemente, erano nel migliore dei casi fantascienza. Una nuova era si affaccia all’orizzonte del cinema. La crisi economica che avanza inesorabile e che rischia di travolgerci tutti da un momento all’altro, non farà che accelerare tale processo, aprendo una voragine che Dio solo sa se sarà colmabile e come. Una sfida, insomma, epica già nel suo preconfigurarsi. E mentre uno stuolo mai visto prima di filmmakers volenterosi – e, si spera, capaci – impugnano il proprio strumento di battaglia (quale che sia, basta che al suo interno abbia una scheda SD o simili per registrare) – così come al tempo delle guerre sante si faceva con l’elsa della spada o con la propria lancia – agli spettatori non rimane che assistere a questa impetuosa ed inarrestabile carica.
I veri film di domani potrebbero essere i nostri vicini di casa a girarli. Esatto, proprio quelli che al mattino salutiamo per forza, neanche in maniera troppo convinta. Restano da risolvere troppe questioni capitali, come la distribuzione, per esempio, oltre che il confine sempre più labile tra dilettantismo e professionismo. Non si può nemmeno stabilire con certezza se quello che nascerà attraverso le doglie del cambiamento in atto si potrà ancora chiamare cinema oppure qualcos’altro.
D’altro canto Louis Lumière mise le mani avanti in tempi non sospetti, e prima di chiunque altro: “il cinema è un’invenzione senza futuro“. Un futuro l’ha avuto invece, ma chissà che adesso non ci si debba piegare, costretti dai tempi, a rivalutare la profondità di quella netta sentenza. Potrebbe allora succedere qualcosa di mai visto prima, o certamente mai immaginato. Gli stessi, temo troppi, che dovranno acquisire dimestichezza con l’agricoltura, tra una coltivazione e l’altra, chissà che non si troveranno ad imbracciare una videocamera immediatamente dopo aver reso la forca. Logori, a seguito del duro contatto con la terra, ma magari rinvigoriti a tal punto da essere in grado di girare quel film che, diversamente, non sarebbe mai stato girato. Prima la pancia, poi la sostanza.
E ci spiace doverci congedare senza nemmeno aver risposto al quesito posto come titolo del presente scritto. La Kodak è fallita: a chi dare la colpa? Sarebbe facile tirare in ballo una non meglio precisata codardia, o magari una pressoché nulla lungimiranza. Ma questo naufragio, peraltro nell’aria come minimo da mesi, vale molto più quello che emerge in superficie. Dice che i tempi cambiano e che, con o senza ciascuno di noi, il mondo continuerà a girare ugualmente. Attori e spettatori, dopo aver scelto i rispettivi ruoli, prendano pure posto. Lo spettacolo sta per cominciare.
A noi non resta che lasciarvi con uno spot che i più grandicelli ricorderanno senz’altro, forse addirittura con un pizzico di nostalgia.