Kubrick e il suo cinema “commerciale”
È polemica dopo le dichiarazioni di David Cronenberg su Shining ed il cinema di Kubrick in generale. Affermazioni che con ogni probabilità hanno urtato più certi fan che il diretto interessato dall’all’altra parte
Ci risiamo. David Cronenberg, non nuovo a certi mezzi-polveroni, di recente ha toccato un ennesimo tabù, definendo Stanley Kubrick addirittura un cineasta troppo attento a certe istanze commerciali (!). Nulla di male, stando alla tesi del regista canadese, se non fosse che invece il newyorkese trapiantato a Londra viene al contrario celebrato quale esponente di un certo cinema alto (sic). Ne abbiamo dato notizia in mattinata, scatenando le solite perplessità laddove non indignazione, per un personaggio che a quanto pare è solito non mandarle a dire, e che anche per questo ci piace. Reazioni comprensibili, certo. Non per forza legittime. O per lo meno, non alla luce di una consapevolezza maggiore in merito a ciò che è stato Kubrick.
Chi fa giornalismo, a tutti i livelli, pecca spesso di una certa faciloneria. Se proprio non si vuole scusarli, è altresì onesto riconoscere loro delle attenuanti. Perché in fondo non è possibile parlare con cognizione di causa in merito ad ogni cosa, anche se un bravo cronista sa mascherare la propria ignoranza evitando di esporsi proprio laddove manca. Ed è a causa di un meccanismo analogo che fa notizia quest’ennesima uscita di Cronenberg. A chi si sconvolge perché il cineasta canadese taccia Kubrick di una certa accondiscendenza nei riguardi del botteghino, potrebbe rispondere lo stesso Stanley, quando reagì così ad un intervistatore che gli fece notare quanto Barry Lyndon avesse stentato in termini commerciali: «sì però è piaciuto in Francia, Italia e Germania». D’altronde Christiane, sua moglie, più e più volte ha avuto modo di evidenziare quanto al proprio marito stesse a cuore l’esito al botteghino, e come lo addolorasse prendere atto di un insuccesso (diciamo che Barry Lyndon fu il film che, in questi termini, può definirsi il “meno riuscito” tra quelli girati da Kubrick, niente di più però).
Signori miei, tanto di cappello al buon Cronenberg, ché se tenesse qualunque cosa (una conferenza, un’esposizione, una pizzata) nel raggio di 100 km rispetto a dove sto io avrei già messo in moto la macchina destinazione il luogo di ritrovo; ma al di là di qualsivoglia, implicito intento promozionale, le sue sono dichiarazioni da parte di un tipo di cineasta che non è Kubrick. Cercando di capire almeno uno dei moventi circa il perché quest’ultimo sia sempre, immancabilmente, rimasto nei confini del genere, si potrebbe tranquillamente fare riferimento proprio a questo suo desiderio di rendersi accessibile. E non che i suoi film siano esattamente così semplici, eh. Ma sfido qualunque altro regista a mostrare il medesimo talento, nonché furbizia, nell’adoperare modelli ampiamente sdoganati per poi tirarli a lucido come ha fatto Kubrick. Attento alla tradizione, Stanley fu un innovatore silenzioso, di quelle innovazioni senza lascito; perché il suo cinema, apparentemente così “semplice” non è mai stato destinato ad essere tramandato. Visto, amato, seguito, studiato. Di certo non replicato (per quanto in tanti almeno un tentativo l’abbiano fatto). Esiste un connotato più anti-commerciale di questo?
Si tratta perciò di chiarire anzitutto i termini: perché il sospetto è che l’indignazione non sia dovuta al “mancato rispetto” per un regista passato alla storia, bensì ad altro. Motivi che certi lettori, appassionati, giornalisti e quant’altro tacciono magari pure a sé stessi, cioè a dire che la diminutio capitis sancita indirettamente da Cronenberg finisca col gravare su altre teste che non su quella di Kubrick. Si avverte infatti ancora il rigurgito di certe correnti, così ostili a tutto ciò che non fosse, per qualche modo, esoterico. Per pochi iniziati, insomma. Oggi David ci dice una cosa che già si sapeva, senza proclamare alcuna verità nascosta, ossia che Kubrick era anzitutto un produttore e regista; dopodiché, attraverso un travagliato processo in cui si è saputo imporre e ha saputo imporre la propria linea, è naturaliter divenuto un autore.
Pensiamo a film come Il bacio dell’assassino e Rapina a mano armata, pezzi di cinema apparentemente convenzionali per l’epoca, ma che a un occhio attento (specie a posteriori) è agevole far risalire a chi gli ha diretti. Lo stesso Kubrick ebbe a lamentarsi, per usare un eufemismo, della sua prima fatica, quel Fear and Desire che fu addirittura misconosciuto dal medesimo, tanto che ne acquistò tutte le copie disponibili per bruciarle o che so io – o almeno, così credeva, visto che, grazie al cielo, almeno una copia è rimasta, da cui recentemente è stata operata una rimasterizzazione in DVD e Blu-Ray. Il tutto a dispetto di critiche a conti fatti positive, con picchi di entusiasmo perfino. Ma niente, Kubrick cassò quel film con la celebre affermazione «la sofferenza è una buona maestra», relegando questa sua prima prova al rango di mero esercizio, sebbene alquanto costoso.
Bene, dove sta qui l’originalità, ci si domanderebbe? Di tutta prima verrebbe da rispondere che Fear and Desire appariva troppo concettuale persino ad uno come lui, il quale pagò inevitabilmente lo scotto della mancata esperienza e che dunque non riuscì a regolarsi nell’infondere all’opera quell’algida compattezza e profondità con cui successivamente si impose. Ma la verità è che a questo suo primo “fallimento” si potrebbero in qualche modo far risalire le origini del vero cinema indipendente. In un settore dove sembrava impossibile fare film al di fuori dell’industria, lo spavaldo ragazzino venuto dal Bronx se ne andò dall’altra parte degli Stati Uniti a girare il suo di film in piena campagna californiana. Senza voler emettere precipitose sentenze, siamo sicuri che circa un decennio dopo avremmo avuto la Nuova Hollywood così per come l’abbiamo avuta? E sottolineo «così per come l’abbiamo avuta», dato che quel periodo ci informa di un notevole fermento in svariate parti del mondo, Francia su tutti con la sua Nouvelle Vague, ma anche Inghilterra col suo Free Cinema. Ma siamo sicuri che, in qualunque modo, i vari Scorsese, Coppola, Lucas ed altri non avessero assimilato proprio la lezione di quel Kubrick che di lì a poco, oramai conosciuto e corteggiato, avrebbe messo a segno il colpo della carriera (2001 Odissea nello spazio)?
Ma prima di rivoltare la Fantascienza come un calzino, all’astuto Stanley toccò passare per la bellezza di ben sette lungometraggi la cui principale prerogativa fu quella di essere sellable (vendibili), perché un film (orrore!) è anzitutto un prodotto, e di questo Kubrick ne era cosciente più di chiunque altro. Dato che non lo so, verrebbe da chiedere a Cronenberg se in vita sua si è mai dovuto preoccupare della disposizione delle locandine presso le varie sale, oppure di servire il caffè immediatamente prima della proiezione stampa, lontano dalle ore dei pasti, per evitare che critici e giornalisti intervenuti s’appisolassero. E tanti altri episodi di tale tenore si potrebbero citare. Solo dinanzi al supposto pericolo d’incolumità per sé e la propria famiglia Kubrick dovette prendere l’amara decisione di far ritirare Arancia meccanica dal mercato britannico; decisione che, com’è facile supporre, non spettava a lui. Eppure i vertici della Warner Bros. si trovarono nella scomodissima condizione di dover assecondare le sue richieste, serrando le tubature ad un rubinetto da cui sgorgava l’acqua più dissetante che a certi livelli conoscono, quella verde che fa rima con manigoldi. Poiché sì, «quel Kubrick sarà anche un rompicoglioni, ma meglio tenercelo buono».
Cronenberg non ha bisogno delle nostre carezze, poiché la sua prolifica ed invidiabile carriera parla da sé. Tuttavia in questione, spero si sia capito, non è lui, bensì una certa tendenza, che molti di noi stentano a credere ancora in vita, nel rapportarsi con una certa sufficienza a ciò che è aperto a molti e non riservato a pochi. Ma esistono una sequela di libri che si soffermano su quest’enigmatico personaggio che certa stampa ha voluto consegnarci come un folle maniaco della perfezione, un recluso; e sulla sua opera, che a tanti piace e che per arrivare ad essere sviscerata, seguita, amata, ha dovuto pagare dazio, scontando l’amaro pedaggio dell’industria; che, per vocazione, punta sempre al profitto sopra ogni cosa. Sì, Kubrick dovette sempre struggersi nel tentativo di rendere finanziabili le sue visioni. E pazienza se a riguardo tanti, anche chi non aveva titoli per farlo, ci volle mettere bocca: vuol dire che i suoi film, così freddi e calcolati, arrivavano pure a loro. Mi pare essere questa l’eterna croce dei cineasti, aspiranti o affermati che siano. Scommetto che anche a Cronenberg sia capitato di fare una passeggiata tra i gironi di un simile inferno.