La grande bellezza: strade che s’incrociano nel tempo di via Veneto
Quella Roma colma di cantieri in divenire su cui la statua del Cristo fluttuava, sovrastante la Capitale, leggiadra, si poteva quasi sfiorare. Un giovanotto, a cui non mancava il senso dell’umorismo, ce la consegnò così, osservandola dall’alto, perché questo è (ora come allora) l’unico modo per abbracciare la Città Eterna nella sua interezza. Venuto da un comune non troppo lontano, il giovane Federico è in questo modo che la immaginava: imponente, ricca, ma soprattutto in procinto di essere scoperchiata… di nuovo!
Epoca di boom economico dopo anni di lacrime, tutto sembrava possibile; specie annoiarsi. Sotto quella maschera disincantata, Marcello Rubini (Mastroianni) raccontava con frivolezza una Roma che lo opprimeva ma che al tempo stesso lo teneva in vita, vittima di un paradosso esistenziale piuttosto diffuso; solo che già a quel tempo nessuno credeva più che mal comune mezzo gaudio.
Siamo nel 2013. In una sua performance teatrale, finzione nella finzione, Romano (Carlo Verdone) recita una sorta di poesia in cui si dice stanco di «rinviare a settembre i programmi dell’estate», o giù di lì. Ci piacque rinviare ciò che forse era davvero urgente, ed eccoci sprofondati in quel parossistico baratro mentre continuano a moltiplicarsi creature deformi, contaminate. L’Italia de La dolce vita, come Narciso, si guarda allo specchio cinquant’anni dopo ed ecco cosa vede: La grande bellezza.
Irrinunciabile il “rimando”, che in fondo non è nemmeno tale. Questione di termini. «C’era una volta un Bel Paese…» non sono parole che introducono una favola, bensì una fiaba. Una di quelle terribili, come solo le fiabe sanno essere; quelle che quasi mai capisci al volo, il cui senso, dapprima, giustamente ti sfugge. Ora però abbiamo un finale, tremendo, delirante, apparentemente gratuito nel suo essere spietato. E come dicevano un tempo i più saggi, non bisogna assecondare la fretta di trarre conclusioni, perché «fiaba oscura, nespola dura. La paglia e il tempo te la matura». La domanda è, dunque: capiremo stavolta?
Sì perché, come sempre accade, prima di noi questa fiaba molti l’hanno già letta, ascoltata e meditata. Sorrentino rientra tra questi: dopo averne anche sviscerato alcuni dei significati, ha pensato bene di offrirci la sua versione. Ed è qui che, provvidenzialmente, aggiustiamo il nostro stesso tiro. Pur non temendo i parallelismi, la citazione, che erroneamente potrebbe essere spacciata per paragone, è fuorviante: non è a Fellini che ci rivolgiamo, ma alla sua Roma, che nessuno meglio di lui seppe descrivere, partendo proprio da ciò-che-non-si-vedeva. Non il rappresentante dunque, bensì il rappresentato, che raramente come in questo caso è anche l’oggetto rappresentato.
La presunta anti-narratività di film come La dolce vita e La grande bellezza, in fondo, non si spiega in altro modo. A chi resta in superficie sarà sempre, irrimediabilmente preclusa la Verità, quella che non si fa ingabbiare dalle maglie di una storia che ha un inizio e che ha una fine. Perché se Roma non è stata fatta in un giorno, è altresì vero che non morirà in un lasso di tempo analogo. Cliché? Al diavolo, sì! Una cospicua parte de La grande bellezza è un reiterato cliché, mai banale perché concreto, vivo. Si fa già un gran vociferare di questi freaks che popolano la “mondanità che conta”, nella Capitale di questa visione sorrentiniana, affaccendandosi nello scovare o nel confermare che sì, certi inquietanti figuri esistono eccome. Ma noi non li possiamo vedere, perché solo l’obiettivo della macchina da presa, come potrebbe fare una penna, ce li restituisce per ciò che concretamente sono: anime in pena.
Che sia una suora che urla sguaiata sbucando da una parete; il volto deturpato di una vecchia star che elargisce baci a mo’ di missive; l’espressione smarrita di una bellissima ragazza che ci toglie il fiato da uno scorcio che dà sull’interno di una limousine; un mancato cuoco travestito da cardinale; tutto concorre a mostrarci ciò che l’occhio si sforza di vedere ma non riesce. Non senza l’ausilio di qualcuno/qualcosa che glielo mostri per come realmente è. Quasi per statuto, il cinema coltiva in sé quest’anelito, talvolta esasperandolo, ossia quello di mostrare, mostrare in maniera sempre più spudorata. Ma cosa succede quando l’occhio si sottrae perché non tollera oltre?
In una delle ahinoi parecchie scene chiave tra i molteplici episodi di cui è composto La grande bellezza, Jep Gambardella (Toni Servillo) si trova in una stanza semi-buia, e non da solo: da un lato, oltre il balcone, il Colosseo, dall’altro l’ostentata esibizione di una coppia nient’affatto inibita, con la donna ben lieta di dare in pasto le proprie grazie più nascoste proprio alla vista dello spettatore di turno, il quale, di tutta risposta… che fa? Si adagia su una sdraio tenendo gli occhi chiusi, rivolti al soffitto. Né lo splendore del passato, né la pulsione del presente lo toccano: Jep è un morto che cammina. E non a caso vorrebbe scomparire, come quella giraffa che, in quella terra calpestata da non-vivi, sembra trovarsi a disagio, bella e (im)maculata per com’è. Ma la vita non è come al circo, o come al cinema. Ricordate? Anche questo ce lo volle in qualche modo confermare sempre Fellini, che come patria d’adozione scelse Cinecittà.
Spettrale è in primis la Roma che vediamo, la cui conturbante beltà si tinge di un’ambigua oscurità. Vuota, sembra quasi elemosinare passi che non ci sono; eterna, in quanto tale non può ospitare creature che in fondo non si sono nemmeno preoccupate di fabbricarsela un’anima. Meglio il vortice di un viaggio inesauribile e inesausto, che negli anni ’60 si voleva follemente senza meta e che oggi è inevitabilmente circolare. Quando Marcello camminava per le vie di zone che forse neanche conosceva, intrattenendosi con gente di cui nulla gli interessava, con lui anche noi eravamo trascinati da quella curiosità per una presunta novità; «chissà cosa c’è dopo?», ci chiedevamo, stupidi e stupiti. Ma quello, come evidenziato in apertura, era un mondo chiuso ancora in una scatola, in spasmodica attesa che qualcuno osasse sbirciarvi dentro. Poco importa che le allettanti promesse fossero tradite di lì a poco: godere di quei momenti preliminari alla delusione era più che sufficiente, un’iniezione di adrenalina per cui valeva la pena correre il rischio. Dopo cinquant’anni di sbirciatine ossessive e ossessionate, in ogni caso maliziose, però, quella scatola non genera più nemmeno certe false speranze: Jep e compagnia bella si danno alla loro routine auto-illudendosi a forza che stavolta sarà diverso. Finché proprio Jep realizza che così non sarà, ma non può smettere perché, come la giovane fanciulla della celebre fiaba di Andersen, non riesce a togliersi le sue scarpette rosse; perciò non gli resta che ballare e ballare e ballare… È allora che comincia il film.
Nane, ballerine, prostitute, arrivisti, saltimbanchi e fenomeni da baraccone in genere, tutti riuniti in quell’unico, decadente spettacolo che non è la mondanità romana, bensì l’esistenza dei tanti che la abitano (dire che la vivono non sarebbe abbastanza). Quella fetta di alta borghesia ancora una volta non risparmiata da un sottotesto marcatamente ideologico, che condanna tutti, indistintamente, coloro che occupano certe sfarzose poltrone. Da tempo ci si è arresi all’evidenza di una gioventù in rivolta decenni or sono, ma che ha barattato più che volentieri la propria indole “ribelle” con un agio addirittura offensivo: altro cliché, ma per cui vale l’appunto esposto sopra.
Tutti si rincorrono in questo valzer di entità inconsistenti, rigettate da qualsivoglia ecosistema. Scarti a cui, come acutamente osserva Jep, «non resta che farsi compagnia» in quell’oasi di superficialità, mentre accumulano tempo. Tanti «io» piccini e micragnosi, che si avvicendano coprendosi l’un l’altro, pur di rosicchiare quel po’ di visibilità che altrimenti l’irrequieta macchina da presa difficilmente concederebbe loro. Vittime e carnefici di sé stessi, dedite alla sopravvivenza più che all’esistenza, emettendo vagiti che non disdegnano la molestia – come quel martellante «t’chiavass’», emblema di un’impotenza figlia del più classico vorrei ma non posso. Spregevoli nei profili, ma umanamente teneri e vicini nelle loro condizioni.
In fin dei conti, probabilmente, non è colpa del narratore se la deriva di cui si deve prendere atto sa di già visto, già sentito; se certa Gerarchia ecclesiale si trova più a suo agio con ricette culinarie piuttosto che con certi Dogmi, mentre i suoi santi sono per lo più percepiti come delle figurine buone solo per prodursi nell’ennesima estasi di sofferenza tutt’altro che invitante; se la moda, che è anche un «modo di essere» della società, non è più espressione di eleganza (come voleva de Balzac) bensì di cattivo gusto intercambiabile e compiaciuto; se chi sorride lo fa quasi sempre per non piangere; se il cielo, con le sue scie chimiche, somiglia più al tavolo di un festino a base di coca che ad un orizzonte a cui guardare con nostalgica speranza; ed infine se la maschera è oramai indistinguibile dal volto che si direbbe celasse. L’artista, preso atto, stila il proprio reportage. In questo La grande bellezza assume più i connotati pseudo-documentaristici di Roma, altro film di Fellini.
Le strade della città pullulano di niente, ed è oltremodo arduo immaginare una via Veneto così diversa da quella di cinquant’anni fa; una strada vibrante vita, carne inconsapevole di essere battuta in vista del macello, ma ancora pulsante e per questo gioiosa. A questa rumorosa ma non meno artificiale vitalità, oggi la via romana par excellence (quanto al cinema almeno) non può che opporre l’anonimato di strade e marciapiedi mortalmente sgombri. Da lì si va alla notte, quella nera che più nera non si può, in cui Jep incontra quel bagliore fugace che è Ramona (centrata Sabrina Ferilli), mentre i volti degli astanti vengono parzialmente risucchiati dall’oscurità, garantita dalla penombra di uno storico night club dove nemmeno lì «è più come ‘na vorta».
Tanti, troppi gli strati di quest’ultima fatica di Sorrentino, che reclama a gran voce ulteriori visioni. Strati accessibili con gli occhi di chi non si sofferma troppo su uno stile, come sempre col regista partenopeo, dettato da una forte esigenza estetica, che sinceramente stiamo ancora elaborando. Oltre ad una pregevole fotografia, che gioca anche con e sulle ombre di episodi dai contorni volutamente incerti. Un esercizio che non sfocia nel manierismo, come qualcuno senz’altro osserverà, ma che segue un codice interno piuttosto coerente, votato alla liricità di un contesto e di un racconto melanconicamente grottesco. Questo, unito all’uso della colonna sonora, tra un Requiem ed un Dies Irae, conferiscono quel grado di anti-narratività più sù accennato, lascito sin troppo evidente di un Malick al quale si potrebbero benissimo far risalire, a dire poco, almeno i primi dieci minuti de La grande bellezza.
Eccola, ancora lei. Ma cos’è questa grande bellezza? Esiste? La grande bellezza c’è, ben nascosta tra le pieghe di quelle immagini che possiamo a malapena scorgere, ma per lo più supporre. Il punto è che Jep ha realizzato di non poterla più vedere, di non esserne più capace. Come Elena, l’amore della sua vita, anche lei se n’è andata, per sempre. Ed effettivamente può commuovere l’inutile sforzo di un uomo che, pur di non ammettere una privazione così irrevocabile, preferisce credere che sia tutto un trucco, sperimentato in caduta libera. Perché si è ancora in grado di tenere in vita tanto splendore semplicemente abbassando le palpebre.