Home Curiosità La Grande Bruttezza dell’ambiente (e delle persone) contro la Grande Bellezza, Vecchia Signora dalla faccia di Marmo

La Grande Bruttezza dell’ambiente (e delle persone) contro la Grande Bellezza, Vecchia Signora dalla faccia di Marmo

Jep Gambardella, approdato a Roma, è l’ultimo dei “flaneur” del cinema italiano, la città lo affascina e fa di lui un fantasma vivente

pubblicato 29 Maggio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 14:01

E’ simpatico Jep Gambardella, ovvero Toni Servillo, che si presenta nello spot de La Grande Bellezza in cui dice con sigaretta e occhio diabolico che lui si diverte nel fare fallire (?) le folli (?) feste romane. Le feste del nuovo humus Cafonal di Dagospia e delle foto di Umberto Pizzi. In realtà, Jep è testimone dell’ennesimo fallimento di Roma, delle classi politiche e di intellettuali che si sono avvicendate al potere dal 1870, dopo il Risorgimento, dopo Torino e Firenze, capitali che si fecero da parte.

Lo spunto è La Dolce vita, ma sul grande tema del fallimento esistono romanzi su una Roma corrotta ancor prima di essere ladrona (nel senso inventato da un vivente uomo politico del nord senza memoria per il presente): ad esempio “Decadenza” di Luigi Gualdo, un libro illuminante pubblicato nel 1892, negli anni dello scandalo della Banca Romana, e nella delusione ormai dilagante nella Roma democratica sovrapposta alla Roma dei papi. Storie che si ripetono.

Jep è simpatico e però non assomiglia proprio per nulla all’alter ego di Fellini nel film, Marcello Rubini, ovvero Marcello Mastroianni. Non solo perché ha sessantacinque, mentre Marcello ne aveva una trentina; o perché è un giornalista di gossip d’antan, in vana attesa di scrivere il romanzo della sua vita sognata. Invece, Jep lo ha scritto il libro, “L’apparato umano”; e poi con comodità si è costruito con le sue stesse mani le sabbie mobili. Vive a Roma in una dimensione astratta, in una irrealtà che si è mangiato il piatto della realtà con tutti i suoi contorni. Lo scrittore Jepi non sa o non riesce più a scrivere, ha scelto un altro mestiere. Ovvero, scrivere per campare articoli su qualche argomento di prestigio (deve intervistare una santa ancora in vita) ma soprattutto per dissipare i suoi giorni nell’inutilità.

Egli reincarna il “flaneur”, parola con cui il poeta Baudelaire indicava il gentiluomo che vaga nelle strade della città. Il poeta scriveva nel 1850 (e ispirò Benjamin) sulla figura dell’artista come avrebbe dovuto essere un botanico del marciapiede, e raccontare con calma e persino un pizzico di esaltante pigrizia ambienti e personaggi della grande città. Jep-Servillo passeggia pigro, esaltato, consapevole, in una Roma che ne Il Divo il bravissimo regista Sorrentino aveva già descritto raccontando la biografia di Andreotti, il diabolico cattolico nella Roma della sacralità di ceneri politiche e mausolei carnali in mezzo a colonne e a palazzi.

Il flaneur pizzica nel bicchiere delle cose, delle feste, delle persone, delle donne, dei rapporti d’ogni genere il cinismo di cui si droga volentieri, in mezzo a sciocchi e sciocche che si drogano di costosa eroina da stupidi consumatori alla moda. Il cinismo lo conduce, nella lucidità ottenebrata dal voler vivere ad ogni costo, a sopravvivere in mezzo ai sopravvissuti, come capita spesso di incontrare a Roma disincantata di commemorazioni, di beatificazioni e di tumulazioni, a cielo aperto. Ecco, Roma attraverso Jep gode dell’ultimo, infinito spettacolo che può garantire: un viale lungo, interminabile del tramonto, in cui il botanico da marciapiede posa i crisantemi di sua creazione, in cammino verso la tomba, anche la sua.

Jep e Roma non vogliono morire, parlano di dipartite, ma sono forti. Hanno ingaggiato un duello di titani. Loro resistono. A morire siamo noi, che di ruderi intellettuali e di degrado ambientale siamo avvelenati. Le pietre della classici restano di pietra. Questo tipo di “passeggiatori”, in un mazzo di “passeggiatrici” (escort su escort), risultano affascinanti per noi che proiettiamo spesso su di loro perplessità, dissenso, simpatia e poi ancora antipatia, avversione. Rifiutiamo lo specchio ma gli specchi sussurrano che ce n’è per tutti. Il film mi è piaciuto. I difetti ci sono e lascio la lente di ingrandimento ai critici, flaneurs della pellicola che hanno da tempo disimparato a vedere e a giudicare, e sono Jep senza sapere di esserlo. A noi sviste di questo tipo spero che non capitano. Tra l’ago e il pagliaio, noi scegliamo il pagliaio delle immagini, delle emozioni, dei pensieri che il lavoro di Sorrentino muove. Naturalmente augurandogli di fare sempre meglio. I registi buoni sono rari come quadrifogli. In Little Italy che si sente big.

Foto © GIANNI FIORITO