Venezia: il mondo del cinema e dello spettacolo cerca di capire meglio il viale del tramonto, con nostalgia e rabbia
L’epoca del digitale ha già anni sulle spalle, e il cinema dichiara ancora tutto il suo amore alla vecchia e cara pellicola
Lezioni di realismo “truccato” in un programma della Mostra, quella diretta dal serio Alberto Barbera, che sta prosciugando le scorie delle passate edizione della epoca ventennale del berlusconismo e della destra. Barbera ha messo sul tavolo le carte, con la consueta prudenza, e con il suo rigore tra sorrisi e decisioni misurate, appunto dotate di realismo. Una carta, proprio nei giorni inaugurali, è stata giocata verso la politica, verso le istituzioni. Il direttore ha chiesto con urgenza al presidente Napolitano, che ama il cinema e questa Mostra, una legge.
La parola urgenza in Italia va usata con modestia, visto che la si può far diventare una gomma da masticare. Ma il disagio, nel cinema, e non solo, è grande e le risorse sono pochi. Adesso c’è un premier scattante e si spera che Renzi ascolti questa urgenza appoggiata da Napolitano, sempre sulle spine per le difficoltà, ma con pazienza e metodo. Speriamo. Sono passati vent’anni. Il digitale estende la sua presenza, conquista produzioni e sale, e si candida senza clamore alla sostituzione dalla pellicola, traendo da essa il carisma del grande cinema. Un grande cinema che si erge a rappresentante leggendario della tradizione dello spettacolo, tutto intero, del Novecento.
Molti film, quest’anno, sui temi del divismo e della polpa emotiva, nonché della evocazione storica e della riflessione filosofica sull’immaginazione, sulle sue felicie o poco felici, devianze. Il film di apertura, “Birdman” di Inaurito è dedicato a un divo che in disarmo che tenta di riacciuffare il successo perduto sulle scene di Broadway. E, come ho detto, non è il solo, anzi esso apre una tendenza chiara. Giuseppina Manin sul Corriere racconta anche di “The Humbling” di Barry Levinson, grande professionista, che presenta il fallimento pubblico e privato di un grande attore.
C’è poi “She’s Funny That Way” di Peter Bogdanovich, ancora arzillo, in cui il ruolo principale tocca ad un’attrice ex prostituta che fa perdere la testa sia all’autore del testo che deve interpretare sia al regista. Un pensiero all’”Angelo azzurro” in cui la pienotta Marlene Dietrich metteva mine nel cuore del prof Hunrat, per poi in trasformarsi in sottile e inquietante immagine della seduzione maliziosa, perversa? La pellicola, il cinema classico come una gomma da masticare che non si stacca dai denti di chi l’ha assaggiata.
C’è anche “Réalité” in cui un cameraman sogna di fare il salto e diventare regista, trova un produttore che lo finanzierà purchè sia capace di trovare in 48 ore l’urlo perfetto della storia del cinema. L’urlo perfetto. Fantastico. Impetuosa è la voce del passato, della tradizione con i suoi tuoni e fulmini. Ci riuscirà il cameraman?
Ci prova a trovare l’urlo perfetto Kim Ki-Duk che due anni fa vinse il Leone d’oro con “Pietà”, bello, duro, forte. Questa volta propone “One on One”. L’ho visto, e il precedente lo cancella. Ma un’idea c’è, e poteva essere sviluppata meglio. Kim lavora nella Corea del Sud, filoamericana, capitalista, con governanti e potenti che il regista giudica con grande severità. Paese travolto dalla storia. Se il Sud è, secondo Kim, spietato e corrotto, la Corea del Nord sappiamo che è chiusa da un regime pesante, da un comunismo prepotente nell’imitazione di quello sovietico, dittatoriale. Al grido, non l’urlo che deve cercare il cameraman, “morte al comunismo”, un gruppo “privato” di giustizieri si candida a vendicare la morte violenta di una ragazza che accade nelle prime scene di “One on One”, e diventa pretesto (metafora, dice Kim) e testo del film. Sceglie e interroga i possibili colpevoli. Atroci sequenze di torture di ogni tipo. Ma ambienti, divise e interrogatori sono scene di tipo teatrale. Corruzione e malaffare dei potenti non si possono correggere solo con la finzione? Tra incudine e martello, il Nord militarista e minacciosa, senza libertà, il Sud regno di ogni tipo di imbrogli e di sfruttamento, Kim dice con chiarezza che spera ma non ha fiducia se non in una soluzione immaginaria. Caricatura sanguinolenta di realtà che solo la speranza consente di usare come metafora di una presa di coscienza.
Ecco il cinema e il teatro, nell’epoca del digitale, si incontrano su piattaforme oggi diverse e comunque affascinate dalla finzione, delle sue emozioni, dei suoi voti sul futuro. Cose che cammineranno da oggi con i tacchi a pugnale turgidi di rossetto delle dive e con i mocassini luccicanti di sudore dei divi, sul red carpet davanti all’entrata del Palazzo del cinema. Nostalgia di eros che non c’è più. Si attende un nuovo Urlo di un nuovo Cinema.