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La paranza dei bambini, la necessità di nuovi occhi prima ancora che di nuove storie

Estensione di un fenomeno già esistente e sdoganato, che a tutti i costi si vuole genere a sé stante. La paranza dei bambini, interessante film di Claudio Giovannesi, reitera certe forme e modi la cui familiarità sta oramai stretta

pubblicato 14 Febbraio 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 21:10

Giovannesi è bravo più che altro perché diretto. Nondimeno permangono certe riserve in capo al come più che al cosa rispetto a La paranza dei bambini: il taglio televisivo sulla scia di Gomorra (il film del 2008) è un qualcosa da cui avrei sperato si stesse cominciando ad emanciparsi, mentre invece è quintessenzialmente legato al progetto, quasi che una storia del genere, in quei luoghi e quel contesto, oramai la si debba raccontare solo in quel modo.

Non si tratta di fare le pulci, poi, ma se pure è credibile che lì le tappe vengano bruciate e si sia posti davanti all’ineludibile necessità di crescere in fretta, ci sono passaggi che temo cozzino con questa verosimiglianza, tipo il modo in cui il giovane protagonista, Nicola, entra in amicizia con gli Striano. Davvero può succedere in questo modo? Così in fretta? Senza nemmeno un briciolo di diffidenza, in un mondo che si relaziona a tale diffidenza in maniera quasi ossessiva perché d’altro canto non può fare diversamente?

Il problema è che su questo registro si gioca tutto, da parte degli autori intendo, perciò certi passaggi tirati lasciano perplessi. Non nego tuttavia che è proprio l’adeguamento alla formula ad incidere maggiormente, questa ostinazione a non volersi divincolare da un canone, vero o presunto, che depotenzia la portata di certi racconti, in questo caso quasi resoconti.

C’è verità nei toni, in quanto perciò vi è d’immediato e superficiale in film come La paranza dei bambini; molto meno se ne coglie in relazione a certe dinamiche, a ciò che le muove, internamente ed esternamente. E qui il conoscere certi meccanismi, ossia avere una reale percezione di ciò che regola quei contesti, c’entra poco: a noi deve bastare quanto scorre sullo schermo, ché semmai quanto già sappiamo o crediamo di sapere su certe cose, per ricollegarmi a quanto scritto sopra, è d’intralcio.

All’estero forse piace pensare che l’Italia sia quel Paese che oramai è in grado di produrre e raccontare solo certe storie, le quali attecchiscono proprio perché ad esse viene confinata l’immagine di una nazione in evidente declino e decadenza. Vorremmo che certe logiche c’entrassero poco col Cinema ma sarebbe una (pia) illusione; perché attraverso lo schermo, grande o piccolo, diciamo in fondo chi o cosa siamo.

Senonché può capitare di “scoprirsi” malgrado noi stessi, ossia il tentativo di dissimularci, l’ammettere certe cose senza nemmeno accorgersene. Ne La paranza dei bambini, al contrario, è troppo soverchiante l’impressione di un processo teso a cavalcare un’idea, non perché spinti dal dovere di raccontare, dall’affezione per i personaggi e via discorrendo. Chiaramente non posso affermare, e difatti non lo affermo, che Giovannesi e chi ha collaborato con lui, non abbia a cuore l’argomento. Non lo so, e a questo punto non so nemmeno se debba interessarmi.

Resta quanto scritto sopra, ovverosia che conta ciò che ci passa davanti. Dunque, da un lato, il non cogliere da dove nasca l’urgenza, quantunque sappiamo che vi sia, dall’altro la mancata proposta di una prospettiva diversa, non rispetto al contenuto bensì alla forma. Cosa farsene dell’ennesima storia contigua ad ambienti camorristici se dopo dieci anni continuiamo a raccontarcela innescando i medesimi dispositivi? Quasi come se certi film costituissero un genere a sé stante, che francamente ritengo non esistere, tale genere intendo.

La paranza dei bambini è un buon film, competente, dall’ottima fotografia di Ciprì alla recitazione di ragazzini a tal punto capaci che da soli tengono in piedi la baracca (e lo fanno con ogni probabilità perché ben diretti). Eppure sarebbe stato il caso d’immettere altro, un’intuizione, un accento, qualcosa che ci desse modo di cogliere una voce, per quanto fioca. Un esempio? L’anno scorso a Berlino andò La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo.

Tra le varie cose, ricordo due panoramiche speculari, quasi complementari, una all’inizio, su un parcheggio, l’altra sul finire, su un casolare. Chi ha visto il film sa che rappresentano due momenti chiave, che con un escamotage piuttosto semplice ci vengono restituiti piuttosto bene. Non si tratta di tecnica, bensì di dirci qualcosa che vada oltre l’immediato, che rimandi a un senso, una condizione diversamente difficile da esprimere/mostrare, se non concedendosi tanto, troppo più tempo. Anche lì abbiamo tanta macchina a mano, non è che sia un film che ricerchi l’inquadratura perfetta, l’estetizzazione a tutti i costi (posto che chi l’ha detto che un’estetica ricercata passi solo da inquadrature fisse o movimenti per forza precisi?).

È che quel film è concepito da una voce, che perciò non rimane soffocata, per quanto magari risulti meno netta di ciò che fosse su carta. Ma su certe cose ci si può lavorare, col tempo si migliora, dedizione e impegno faranno il resto. La paranza dei bambini mi pare più a suo agio nel selezionare i segmenti da mostrare, evitare insomma di perdere tempo con situazioni e/o momenti superflui. Ma tale asciuttezza deve andare di pari passo con l’abilità di esplorare le singole scene, di estrapolare quanto sembra si ricavi dall’insieme, che però, in questo caso, non è affatto maggiore della somma delle sue parti.

Proprio perché molte parti non funzionano a pieno come dovrebbero e la presunta armonia totale è frutto di un equivoco al quale contribuiscono sia il tenore vagamente documentaristico, che, per l’appunto, la buona resa delle performance attoriali, in linea con le premesse, l’unico vero elemento che si accorda sul serio con tutto. Si potrebbe pure passare sopra a tutto ciò accontentandosi di tale equivoco, cioè ammettendo che al Cinema si debba essere disposti ad accettare certi compromessi, valutando piuttosto fino a che punto il gioco di magia, se così possiamo definirlo, sia riuscito.

In altre parole, nella misura in cui la sensazione che ci lascia un film è quella di aver assistito a qualcosa di verosimile, nel suo insieme armonioso, ebbene, l’esperimento s’ha da considerare riuscito – posto che, come in questo caso, tale ambizione alla base esista, cioè quella di tratteggiare una realtà senza sconfinare più di tanto. Senonché non a tutti i casi a mio parere si debba applicare un simile “principio”. Al contrario, nel caso di film di Giovannesi, mi pare che una dinamica del genere tenda a contraddire le premesse di un film che vuole limitare al massimo gli artifici, pur non abdicando (come potrebbe?) alla sua natura di prodotto filmico.

Non riuscendo a venire a capo di tale questione, complessa com’è, fatico perciò a recepire un film come La paranza dei bambini al di là di una sin troppo naturale, quasi spontanea, estensione nel tempo di un format che ha evidentemente esaurito, a queste condizioni, il proprio potenziale: che sia perché abbia assolto a una sua non meglio precisata “missione”, o perché, più semplicemente, l’esposizione prolungata l’ha reso per lo più innocuo, non saprei dire. Quel che è certo è che c’è bisogno di altri occhi prima ancora che di altre storie.