La passione di Giovanna d’Arco e la sua importanza ancora novant’anni dopo
Non so come avrei potuto raccontare la storia del processo e della morte di Giovanna senza l’ausilio dei primi piani per avvicinare gli spettatori così tanto ai cuori e alle anime di Giovanna e dei giudici. (Carl Theodor Dreyer)
Sono trascorsi novant’anni da quando La passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer fece letteralmente irruzione nel giovane mondo del Cinema. Giovane, certo, ma che proprio in quel periodo, siamo nel 1928, si accingeva a sperimentare quella che a tutt’oggi è forse la transizione più significativa nella sua storia centenaria, ossia il passaggio dal muto al parlato. Quasi un canto del cigno perciò, se vogliamo addirittura fuori tempo massimo, visto che, convenzionalmente, si fa risalire a Il cantante di Jazz (1927) l’avvento del cosiddetto cinema sonoro.
Senza troppi panegirici, però, come mai è così importante ricordare questo film? Perché questo e non altri che hanno a loro volta segnato tappe importanti? Anzitutto, come già detto, perché cade proprio in questi giorni il novantenario; e poi perché tale ricorrenza ci dà modo di sollevare una/due questioni non meno utili ai fini del discorso soprattutto oggi, altra epoca di passaggio. Uno degli aspetti per cui l’opera di Dreyer s’impose pressoché da subito fu il suo lavoro sul volto dell’indimenticabile ed indimenticata Renée Falconetti, eternato dalla serie di primi piani su cui poggia l’intera impalcatura de La passione di Giovanna d’Arco.
Siamo in un periodo in cui la grammatica del cinema è ancora in divenire, anni in cui, dopo aver tutto sommato da poco integrato la narrazione, si sta tuttavia assistendo al formarsi di un linguaggio sempre più strutturato. Già per l’epoca, infatti, il lavoro di Dreyer è ardito, contravvenendo ad una delle più recenti acquisizioni, che non a caso resistono tutt’oggi, ossia la continuità tra un’inquadratura e l’altra in ottica spaziale. Ed è, tra le altre cose, proprio il lavoro sullo spazio ciò che pone questo capolavoro su un altro livello.
Dreyer trascende la narrazione così per come la s’intende fino a quel momento, cioè il riportare una serie di fatti corredati da spesso scomode descrizioni, mettendoci a parte di una peculiarità di questo mezzo, rimasta sino a quel momento latente: raccontare per immagini uno stato d’animo (o una serie di questi). Fino a lì Letteratura e Teatro si sono spartiti l’onere, con ovvia preminenza del primo sul secondo; da quel momento in avanti Dreyer scoperchia il vaso di Pandora e ci dimostra che pure questa giovane Arte, non ancora considerata tale del tutto, può osare tanto.
L’aspetto se vogliamo ancora più interessante sta nel come consegue tale obiettivo. Il regista danese, infatti, contravviene ad una serie di regole, su tutte quella menzionata sopra relativa alla continuità spaziale, attraverso un montaggio sconnesso ardito e straniante, che appunto quasi mai ci consente di situare un interlocutore rispetto a un altro ma finanche rispetto al luogo in cui si ciascuno di loro si trova. Nondimeno il suo è un esercizio che va più a fondo, lavorando per sottrazione, sulla falsa riga di quel minimalismo che ha contraddistinto non solo Dreyer ma, più avanti, pure un certo Bresson. Gli sfondi posti alle spalle dei personaggi, specie laddove inquadrati singolarmente, sono infatti neutri, bianchi, negando allo spettatore quella profondità di campo che lo avrebbe distratto da ciò che il narratore ha più a cuore.
Cosa? Come già scritto, quanto Giovanna sta attraversando, il dolore, la sofferenza, finanche lo smarrimento. Quest’ultima componente è in parte acuita proprio dall’approccio a ragion veduta sgrammaticato di Dreyer, che sacrifica tale linearità proprio al fine di ottenerci un grado di coinvolgimento altrimenti inconcepibile: parliamo di una ragazza che rischia di essere bruciata viva dopo aver compiuto un’impresa che ha del miracoloso, peraltro pienamente convinta di essere nel giusto. Mediante perciò la sovversione di alcuni tra quelli che già a quel punto potevano essere considerati dei veri e propri principi linguistici, eccoci restituita la prima, vera storia che al cinema opera su piano ben diverso, altro nell’accezione più ampia del termine.
Adesso ci si continuerà probabilmente a domandare come mai tutto ciò possa avere un senso oggi, dove stia l’urgenza al di là dell’intento celebrativo. Il motivo è presto detto. La vicenda che ha portato La passione di Giovanna d’Arco a diventare uno dei film più rilevanti della storia del Cinema ci ricorda, ieri, oggi e pure domani, che l’Arte ha anzitutto bisogno di poeti, gli unici che possono permettersi il lusso di ribaltare una lingua, in quanto, laddove si prendono il disturbo, lo fanno sempre con cognizione di causa. Sono costoro, attraverso il loro operato, che danno origine a quegli stravolgimenti che, soli, consentono a un dato linguaggio di espandersi in larghezza e profondità, uscendone più ricco e vigoroso di prima. E sembrerà beffardo, sebbene non lo sia affatto, che per uno sviluppo del genere si debba necessariamente passare dalla mortificazione di ciò che rende tale un linguaggio, il suo scudo e la sua forza, ossia le sue regole.
Tutto ciò, senza nulla togliere alle figure professionali, parte integrante di tale processo, che non può fare a meno neanche di loro. Purché però, appunto, ci si limiti a questa definizione: l’Arte avrà sempre bisogno di bravi tecnici, meglio ancora se nel loro campo tanto abili quanto teorici; è dei professionisti che non sa davvero cosa farsene. Dreyer lo diceva nel ’28 ma con questa sua fatica ce lo continua a ripetere ancora oggi.