La teoria svedese dell’amore: al cinema con le ombre della società più indipendente del mondo
L’italo-svedese Erik Gandini, porta sul grande schermo la vera natura e le ombre della società più indipendente del mondo
La teoria svedese dell'amore (The Swedish Theory of Love) – Trailer from Lab 80 film on Vimeo.
Riflettere sulle dinamiche del contemporaneo richiede prospettive nuove o forse solo lontane da stereotipi consolidati, come quelli diffusi sul sistema sociale svedese, ‘individualista, autonomo e indipendente’ che Erik Gandini prende ‘a modello’ per il suo ultimo documentario volutamente provocatorio.
La teoria svedese dell’amore (The Swedish Theory of Love, Svezia, 2015) sceneggiato e diretto dall’autore di Videocracy, italo-svedese di nascita e provocatorio per vocazione, punta la macchina da presa sulle ombre del celebre “autonomia istituzionalizzata” e quello stile di vita nordico preparato a tavolino dall’élite politica svedese.
Non dovrebbe servirci il contributo del sociologo Zygmunt Bauman, per sapere che alla natura umana non basta l’assenza di problemi per generare esistenze felici, e all’indipendenza dei singoli si accompagna solitudine e svuotamento delle relazioni.
Il viaggio di Gandini nella società di cittadini liberi da qualsiasi dipendenza, spostando lo sguardo da solitari donatori di sperma, madri single, appartamenti desolanti e “morti dimenticati”, ai tentativi di resistenza di quanti ritrovano il senso di comunità, con i giovani che si ritrovano nelle foreste o medici emigrati in Etiopia, fa riflettere sull’ossessione per l’autosufficienza e il mito dell’autonomia dell’individuo.
[quote layout=”big” cite=”Erik Gandini]«Il mio è un film provocatorio, mi sono focalizzato sulle ombre che esistono nel sistema sociale svedese, il più individualista al mondo. Mi piace mettere in discussione le idee più indiscutibili e questo modello di società in Svezia è assolutamente intoccabile. L’obiettivo del mio lavoro è insinuare un dubbio: se l’ossessione per l’autosufficienza e il mito dell’autonomia dell’individuo si rivelassero essere una strada a fondo chiuso?
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Il film prodotto da Erik Gandini e Juan Pablo Libossart è una produzione Fasad AB, in coproduzione con SVT (Malin Björkman-Widell), FILM VÄST (Sofie Björklund), INDIE FILM (Carsten Aanonsen), Zentropa (Michael Olsen) e il sostegno di SFI (Cecilia Lidin), DFI (Klara Grunning-Harris), NORDISK FILM & TV FOND (Karolina Lidin), NFI (Ivar Kohn & Even G. Benestad), DR (Mette Hoffman Meyer), YLE (Jenny Westergärd), NRK (Tore Tomter) e MEDIA Programme of the European Union.
A distribuire La teoria svedese dell’amore nelle sale italiane sarà Lab80, dal prossimo 22 settembre.
Intervista a Erik Gandini
Mamma svedese e padre italiano, 49 anni da compiere ad agosto e provocatore per vocazione. Lui è Erik Gandini, regista di film-documentari che in Italia è conosciuto soprattutto per “Videocracy – Basta apparire”, una critica verso il ruolo che in Italia svolgono le televisioni private di Silvio Berlusconi e sul sistema che ci gira intorno. Sei anni dopo Videocracy, Gandini esce con “The Swedish theory of love” e mette nel mirino la Svezia, la cui società forse non è così perfetta come la vediamo dal sud Europa.
East Journal l’ha incontrato negli uffici della casa di produzione Fasad, di cui è cofondatore, situati in un bel palazzo antico di Gamla Stan, centro storico di Stoccolma.
Videocracy e The Swedish Theory of Love sembrerebbero due lavori diversissimi, in realtà però hanno in comune l’occhio critico e indagatore che lei ha nei confronti della società. Come è nata l’idea per il suo ultimo saggio documentaristico?
Sentendomi sia svedese che italiano mi ha sempre interessato il vedere le cose da una prospettiva “esterna”, quasi a livello sociologico direi. Ogni società si auto-crea delle regole che viste da fuori possono essere molto interessanti. L’importanza fondamentale che ha l’autonomia e il valore che gli viene dato dagli svedesi, per esempio, mi ha sempre affascinato.
La Svezia è unica: sin dagli anni ’70 del secolo scorso ha puntato tantissimo a creare un Paese dove l’individuo è libero. Dove l’anziano non deve mai dipendere dai figli, dove il giovane si libera presto dalla dipendenza dei genitori, dove la donna non deve mai dipendere dall’uomo e viceversa. Qui grazie allo Stato è davvero possibile realizzarsi come individuo. Il progetto politico per cui si è affermata questa visione della vita è nato appunto negli anni ’70 e all’epoca aveva anche senso: c’erano i mezzi economici per farlo e l’idea di base era giustissima. Il welfare state nato in Gran Bretagna qui ha trovato forse la sua applicazione
migliore. Questa cosa, l’affermazione dell’individuo, è un’idea moderna e futuristica anche perché tutto il mondo adesso sta andando in quella direzione. È stata un’idea di grande successo che ultimamente si sta diffondendo anche in Italia, ma dove la debolezza dello Stato rende ancora la famiglia garante economico.
Del film colpisce in particolare una definizione che viene data della Svezia: “Società degli individui” (a society of individuals). Sembrerebbe un ossimoro, ma è una definizione azzeccatissima.
È il paradosso svedese. Questo è il paese più individualista del mondo ed è costruito per essere così. Sembra quasi che il sistema ci dica: “Aiutamoci a liberarci gli uni dagli altri”. È un’idea modernissima che però crea anche qualche problema. Io stesso, per esempio, mi sono trasferito qui per la possibilità che in Italia non avevo di poter fare quello che volevo e realizzarmi lavorativamente. Il lato negativo del “sistema svedese” è che però produce una perdita di appartenenza e della vita di gruppo, di comunità. E infine genera anche un forte senso di solitudine.
Il film ha scatenato alcune reazioni da parte della critica. Il suo lavoro è stato visto come troppo “di parte” e sui giornali non sono mancati attacchi per come ha ritratto la società svedese. Cosa risponde?
Il mio documentario è volutamente provocatorio. È la mia prospettiva cupa che va a focalizzarsi sulle ombre che esistono nel sistema. A me piace mettere in discussione le idee più indiscutibili e questo modello di società in Svezia è assolutamente intoccabile. Ripeto: io mi sento sia italiano che svedese e mi piacerebbe prendere il meglio che le due nazioni hanno da offrire. Penso ci sia un reale bisogno in questo Paese di vedersi da una prospettiva diversa. L’obiettivo del film è insinuare un dubbio: “Ma se guardassimo di nuovo ai nostri valori e li mettessimo in discussione?”. Forse alla fine potremmo rivalutarne altri, come quello di comunità che per troppo tempo è stato messo da parte.
Lei dice di voler offrire una “prospettiva diversa”; ma è innegabile che la Svezia, agli occhi delle altre nazioni europee, appaia come un’isola felice, un modello da cui prendere esempio.
Non vorrei essere frainteso: qui la meritocrazia funziona benissimo, le possibilità per affermarsi sotto ogni punto di vista ci sono per tutti. Ma diciamo che la società ha perso qualcosa a livello umano. I concetti di “autonomia” e “indipendenza” hanno alimentato un terreno che era forse fertile già di suo e aumentato la distanza fra le persone, non solo tra svedesi e svedesi, ma anche tra svedesi e stranieri. È un fatto molto triste nonché uno dei risvolti più interessanti del sistema svedese, che infine porta inevitabilmente a solitudine e segregazione. Più che “indipendenza” io proporrei un sistema basato sulla “interdipendenza”, dove all’essere umano viene detto: te la puoi cavare da solo, certo; ma ricordati anche che le relazioni e gli amici sono importanti. Non penso che ci sia bisogno di rivoluzionare la società scandinava, ma soltanto riconoscerne i lati oscuri e correggere un po’ il tiro.
La Svezia pare vivere un’ondata di immigrazione senza precedenti. Lei da svedese, da regista e non ultimo da “immigrato”, come vede il periodo che il paese sta attraversando?
L’immigrazione in realtà c’è sempre stata fin dall’immediato secondo dopoguerra, ma adesso forse il problema è che è cambiata la “narrativa” delle cose. Negli anni ’70 per esempio c’era grande consenso, ma adesso la situazione non è più la stessa in quanto non si riesce più a convincere la gente che “andrà tutto bene”. Così come tutte le persone emigrate in Svezia dopo le guerre balcaniche adesso sono perfettamente integrate nel tessuto societario, bisognerebbe far capire che la stessa cosa avverrà con gli iracheni, afghani, siriani ed eritrei che stanno arrivando adesso.
Non pensa che questo problema abbia aiutato a creare un distacco profondo tra la politica e la gente comune? Il fenomeno Sverige Demokraterna potrebbe nascere proprio da questo.
Il Paese forse si scontra con la volontà politica di creare una società pluralista. Tutti i partiti dell’arco parlamentare al momento sono favorevoli all’integrazione e all’accoglienza. Tutti tranne SD, che secondo un recente sondaggio avrebbe toccato il 20% dei consensi. Ma è possibile che il 20% degli svedesi quindi sia razzista? Ovviamente no. Anche perché secondo una recente statistica una persona su sei fra quelle che attualmente risiedono in Svezia è nata all’estero. Sverige Demokraterna fa retorica populista, è vero, ma la fa in un modo meno rozzo che in Italia, “alla maniera svedese” mi verrebbe da dire. Per intenderci: non parla di ruspe e campi Rom. Ma dice qualcosa del tipo: “Aiutiamo i popoli in difficoltà, ma aiutiamoli direttamente lì, senza farli arrivare qui”. Molti svedesi adesso si chiedono: “Va bene ospitare i rifugiati. Ma quanti? Come? Con quali soldi? Chi paga il conto?”. Il partito di Jimmie Åkesson va ad intercettare tutto questo elettorato qui con una retorica forse più istituzionale, ma allo stesso tempo ugualmente xenofoba.
Torniamo indietro ai suoi documentari: quanto è stato difficile realizzare Videocracy? Ha avuto problemi nel convincere personaggi come Corona o Lele Mora a farsi intervistare?
In realtà è stato molto facile. Ho sfruttato due vantaggi in particolare: l’ignoranza delle persone che nemmeno sapevano cosa fosse un documentario e l’effetto Borat. Io venivo dalla Svezia e realizzavo un film finanziato da una società di produzione svedese. E loro pensavano: “Chissenefrega della Svezia, chi mi conosce lì!”. Quindi si lasciavano andare a confidenze e a opinioni che normalmente forse non avrebbero espresso. È stato un grande vantaggio per il film.
Il trailer è stato censurato sia da Rai che da Mediaset.
In quel periodo (2009) stava venendo fuori un problema di immagine molto forte per Silvio Berlusconi. Si iniziava a capire che la sua vita privata e la sua passione per le donne influenzava pericolosamente anche la politica. Però il tentativo di boicottare Videocracy ha alla fine provocato un effetto boomerang, facendo crescere esponenzialmente la popolarità del film su Internet e dandogli più visibilità di quella che ci si aspettava. E devo dire che il risultato al botteghino, per essere un documentario indipendente, è stato soddisfacente. Anche quando è andato in televisione sono stato fortunato. Il caso infatti ha voluto che il giorno prima della programmazione su La7 Berlusconi si sia dimesso da Primo Ministro, facendo aumentare quindi l’attenzione per il mio lavoro.
Per concludere, le ha creato più problemi Videocracy o The Swedish theory of love?
Paradossalmente forse più il mio ultimo lavoro. Sono stato accusato, anche da parte di alcuni esponenti di sinistra, di essere contro l’indipendenza della donna, di guardare con nostalgia al passato. Ma come è evidente nel film, il mio intento non è questo. Purtroppo sono andato a toccare un “nervo” molto sensibile nella società svedese e perciò il film è stato molto chiacchierato e commentato, sia sulla stampa che sui social network. Ma questo è un bene, ci sarei rimasto male se fosse successo il contrario.
Alla fine dei conti mi ritengo soddisfatto: ho fatto partire un dibattito acceso che può solo portare a qualcosa di buono. Tante persone hanno preso coscienza del fatto che in Svezia esiste un problema sociale di solitudine e molti hanno cominciato a mettersi adesso in discussione.
Via | Lab80