La zuppa del demonio: Recensione in Anteprima
Dall’Italia del boom economico ai giorni nostri, focalizzandosi su quell’industria che tanto ha inciso sulla storia del nostro Paese. Così ce lo racconta Davide Ferrario nel suo documentario La zuppa del demonio
Andiamo con ordine. Cos’è la zuppa del demonio? Si tratta di una definizione utilizzata da Dino Buzzati a proposito degli altoforno, creature prettamente novecentesche traboccanti questa melma arancione su cui in fondo si basa la disamina storica di Davide Ferrario. Non un film nostalgico, a dire del regista, bensì un documentario che ci aiuti a capire come siamo arrivati al punto in cui siamo.
Operazione fascinosa, La zuppa del demonio è pressoché interamente costituito da immagini di repertorio, veri e propri documenti di un’epoca che sembra lontana ben più dei pochi decenni che ci separano da essa. Le immagini ci portano nelle fabbriche che, a partire dai primi decenni del ‘900, coprirono intere aree della penisola, a seguito di quella Rivoluzione Industriale che da noi arrivò con un po’ di ritardo; ma arrivò, e cambiò radicalmente non soltanto il Paese bensì le esistenze di coloro che lo abitavano.
C’è un passo di Pier Paolo Pasolini, inserito nel film da Ferrario, in cui lo scrittore rimpiange i tempi in cui poteva ancora vedere le lucciole, improvvisamente scomparse a partire dagli anni ’60. Pasolini ne faceva argomento più alto della mera biologia, confrontando genialmente questo dato con la questione identitaria, generazionale. Generazioni che sono passate dalla povertà delle campagne ad una sorta di artificiale agiatezza delle fabbriche: ci sono interviste in tal senso che colpiscono per lucidità da parte di chi ce le propone, mentre lasciano quantomeno perplessi in relazione agli intervistati.
È chiaro che accostarsi a La zuppa del demonio presuppone se non una preparazione (questo no) per lo meno una certa antipatia verso qualsivoglia anacronismo storico. Quello che ricostruisce Ferrario è un mondo che sostanzialmente non esiste più, ma al tempo stesso è parte della nostra storia, del nostro DNA socio-culturale. Tutti termini a loro volta desueti, o che lo stanno diventando, perché appartengono a loro volta a quelli anni di boom economico.
Non a caso viene messa in relazione l’alta produzione con il benessere degli italiani, i quali a loro volta si riconoscevano bisognosi di sempre più beni di cui fino a poco tempo prima sconoscevano l’esistenza; innescando un feedback reciproco, perché poteva pure succedere che un operaio si trovasse in casa qualcosa che aveva contribuito a costruire (lui o un suo collega da qualche altra parte dell’Italia). A tal proposito è interessante pure il discorso che Ferrario appronta in relazione al processo vero e proprio. Alienante, perché la fabbrica ha a conti fatti demolito il concetto di artigianato, che non significava semplicemente costruire qualcosa ma venderla, piazzarla, il tutto de visu. Qui l’uomo è parte di un ingranaggio ottimamente oliato, ma che lo estranea dal prodotto finale a tal punto da non renderlo nemmeno in grado di distinguere ciò che sta contribuendo a creare. Discorsi noti, certo, ma di cui in questo caso ci viene mostrata la fondatezza.
Eppure ci sono casi, come quelli di una diga, che ci parlano di un tipo di alienazione diversa. È uno dei passaggi più intensi del documentario, quello in cui un capocantiere a fine lavori si congeda dalla mastodontica opera e dai suoi operai con una sorta di commiato: «un giorno chi osserverà quest’immensa diga non si chiederà nemmeno chi l’ha costruita, non sapendo dunque quanto sudore, sangue e dedizione ciascuno di voi ha sacrificato per darle vita». Frasi non alla lettera ma il senso è quello.
Ferrario dice di non voler guardare con nostalgia a quel periodo, ed infatti pare che a quei giorni si guardi piuttosto con sospetto, come se una certa approssimazione tipicamente italiana sia da ricercare in questa svolta epocale. D’altronde in quel periodo si trattava davvero di mettere qualcosa in tavola almeno una volta al giorno, elemento su cui non si può glissare per tentare di comprendere cosa spinse i nostri nonni e bisnonni a lasciarsi totalmente andare a quel sistema. Ché poi la domanda giusta sarebbe pure… c’era modo di resistervi?
Di proposito o meno che sia, La zuppa del demonio finisce anche col varcare la soglia della politica, quando mette a confronto un’azienda come la Fiat con una come l’Olivetti. Ritmi serrati e mansioni da robot nella prima, clima apparentemente più disteso e manodopera più consapevole nella seconda. Tanto avulsi da ogni cosa che non fosse il processo di fabbricazione i dipendenti Fiat, quanto coccolati quelli Olivetti, per i quali l’azienda provvedeva non solo a trovare una sistemazione in un contesto ameno, ma dotava i luoghi di lavoro di “comfort” e utilità come sale proiezioni, biblioteche e quant’altro. Due modi d’intendere l’industria che celano entrambi degli scompensi, così come coltivano dei lati tendenzialmente positivi. Guardiamo ad oggi però e vediamo che fine fece l’Olivetti e dove si trova invece la Fiat. Certo, servirebbe qui uno storico più attento, che sappia contestualizzare ed in qualche modo spiegare il perché una delle nostre eccellenze, l’Olivetti per l’appunto, fece la fine che fece; mentre la Fiat, pur con tutti gli affanni di questo periodo, in qualche modo ancora regge.
Insomma, qualora non si fosse capito, La zuppa del demonio è più rilevante per i quesiti che pone anziché per quelli a cui risponde. Ed è bene che sia così, perché lo spazio di un documentario non sempre è sufficiente; di certo non lo era in questo caso. Resta un documento prezioso, oseremmo dire didattico, che, accompagnato da un’analisi onesta e competente della nostra storia da cinquant’anni a questa parte, può senz’altro contribuire nella ricostruzione di un sogno che era tale e che oggi forse non lo è più.
Voto di Antonio: 7
La zuppa del demonio (Italia, 2014) di Davide Ferrario. Con Walter Leonardi e Gianni Bissaca. Nelle nostre sale da domani, giovedì 11 settembre.