Lamù su Netflix, i primi passi di Mamoru Oshii e Kazuo Yamazaki
Quando Lamù e Mamoru Oshii approdarono al cinema per la prima volta
Guardando i due Lamù (Urusei Yatsura in originale) apparsi da qualche tempo sul catalogo Netflix mi sono chiesto cosa avrebbe potuto spingere in particolare a prestarvisi oggi. A ben vedere di motivi ce ne potrebbero essere svariati, addirittura uno per ogni tipologia di spettatore; eppure la verità penso sia che finora ad essersene interessati siano stati per lo più certi over 30 che già conoscono il fenomeno e lo hanno seguito a suo tempo, o attraverso il manga di Rumiko Takahashi, oppure mediante la serie TV (oppure, semplicemente, hanno voluto rivedere i due film).
La provocante aliena, innamorata persa del suo Ataru, è sbarcata al cinema per ben sei volte, ed Only You e Remember My Love non rappresentano che le prime scorribande sul grande schermo. Film che, per temi e narrazione, dipendono parecchio dalla fonte: in poche parole, senza avere un minimo di familiarità coi personaggi ed il contesto si rischia seriamente di perdersi. Ed è qui che mi si è accesa la lampadina, proprio sul concetto di vagare al buio, disorientati. Perché sì, c’è molto che si può dire entrando nello specifico delle intenzioni della Takahashi, seguendo una linea che includa pure altre sue opere capitali e non meno blasonate come Cara dolce Kyoko e Ranma ½; ma credo che di questi due lungometraggi qualcosa si possa, anzi si debba dire pur limitandosi ad un altro livello del discorso.
Non aspettatevi un’analisi, dunque una disamina scrupolosa perciò coerente rispetto a quanto sto per evocare, se non qualche bagliore, qualche intuizione dovuta alla visione. Lamù – Only You (1983), per chi non lo sapesse, è il film d’esordio di un gigante dell’animazione giapponese, quale è Mamoru Oshii. Più di vent’anni prima di Ghost in the Shell (1995), nonché appena tre da quella di Tenshi no tamago (1985), c’è qui già parecchio, sebbene in maniera sparsa, disordinata, di ciò che accenderà il fuoco di questo cineasta e disegnatore nel corso della sua significativa carriera. Premesso che Oshii non arriva a Lamù da profano, dato che il suo coinvolgimento nella serie TV è pressoché totale, da supervisore di un centinaio d’episodi e regista di parecchi tra questi.
Su tutti mi pare opportuno rievocare una considerazione di Oshii, secondo cui l’elemento chiave, quello che viene prima di ogni altro nell’accostarsi ad un film, è il mondo, la sua costruzione. E a ben pensarci non è difficile arrivarci da soli: si pensi a quella perla rara che è appunto Tenshi no tamago, film che, per stessa ammissione di Oshii, oggi non girerebbe mai. Zero dialoghi, una trama non solo ridotta all’osso ma pure sfuggente, pregna di significati, con quel finale che spiazza e lascia aperti degli interrogativi da far venire le vertigini. Era il periodo mistico, se proprio vogliamo, del regista, che non a caso fino a qualche tempo prima aveva frequentato un seminario per farsi prete; venuta meno la vocazione, di certo non sono scomparse le domande. Ed in questa sua fatica del 1985 una tensione del genere non solo è percepibile, ma travolge, inquieta, tende a rimpicciolirci come quell’architettura pesante e maestosa, d’ispirazione gotica, che non semplicemente accompagna la vicenda della piccola protagonista, bensì ci parla, personaggio essa stessa.
Si tratta di una prima eco che guarda al di fuori dei confini nipponici, spingendosi verso un Occidente che, in vesti diverse e secondo canoni di altro tipo, si reincarnerà prepotente in Ghost in the Shell. Prima però c’è appunto Lamù, un’esplosione di giapponesità come poche se ne sono viste. L’estro lasciato libero di vagare consente ad Oshii di sperimentare cose di cui non c’è quasi tempo di rendersi realmente conto; tecniche e soluzioni da far strabuzzare gli occhi, espressione di un desiderio d’esplorazione che lascia ancora oggi esterrefatti. E non che di cose sopra le righe negli ultimi trent’anni o giù di lì non ne siano venute fuori dal Sol Levante; solo che raramente si riesce ad infilare così tanto in così poco spazio senza dare l’idea di un’inutile oltre che soverchiante dispersione.
Only You, nondimeno, si pone come tentativo ancora acerbo; interessante da osservare, magari studiare, senz’altro conoscere, ma meno coinvolgente da vivere. È un Oshii che sta ancora aggiustando il tiro, non solo in relazione a ciò che lui cerca per sé stesso ma anche in funzione di una serie che sbarca su un altro medium. Saga che col terzo, Remember My Love (1985), diretto stavolta da Kazuo Yamazaki, centra quasi in toto l’obiettivo. Yamazaki non ha forse raggiunto lo status di Oshii, ma il suo subentro a quest’ultimo, sia lato TV sia lato cinema, ha dato una scossa. Qui infatti siamo avanti sul serio, per format, espedienti narrativi, visione; la terza iterazione cinematografica di Lamù è una girandola di colori e trovate assurde che vengono formalizzate con una proprietà di linguaggio encomiabili, pur rimanendo nell’ambito di una demenzialità che pochissimi hanno saputo e sanno a tutt’oggi produrre.
Se infatti certi temi sono in gran parte lascito del lavoro della Takahashi, tutto ciò che ha a che vedere con l’impostazione e la gradazione di questi toni svagati è certamente da attribuire ad Yamazaki & soci – tra cui ritengo lo stesso Oshii, al quale qualche merito va attribuito a ragion veduta. Non si riesce a star al passo con le tante misure escogitate, a tal punto organiche, portanti ma al contempo accessorie; abbellimento ma sostanza, in un turbillon di movimenti di camera e colori che fanno di questo trip un’esperienza ubriacante ma rigenerante al contempo. Persino uno come Masaaki Yuasa, che si muove su lidi un po’ diversi e più personali, ma che è sicuramente uno dei maggiori esponenti di certa demenzialità spinta, non sempre consegue il medesimo equilibrio.
In Remember My Love Yamazaki trova la quadra: tanto ti spiazza, tanto ti tira dentro. Là dove t’incalza coi suoi nodi narrativi, certe strambe ricorsività, t’intrattiene col suo farsi spettacolo, destare quel tanto di meraviglia che ti distoglie nella giusta maniera dal voler forzare una logica che è tutta interna a quel mondo, a quella vicenda. Una cifra che già contraddistingue quel primo esperimento che è Only You: l’amore non corrisposto di Lamù per Ataru, nel contesto di quel paese-mondo che è appunto il liceo Tomobiki, per cui dell’eterna diatriba tra l’innamorata Lamù ed il porcello Ataru, che vede tutte le donne fuorché l’unica che lo desidera veramente, partecipano in qualche modo tutti, tutti avendo un ruolo, una parte, foss’anche marginale.
Tornando a Remember My Love, davanti ai nostri occhi si staglia una tale unità, una tale assonanza tra l’assurdità della vicenda e la sua resa, che mutua da quanto ha ereditato, per costruirci sopra questa bizzarra parabola che rimanda ad Alice nel Paese delle Meraviglie, di ambientazioni sgangherate e streghe capricciose. Mescolando i piani, siano essi temporali o spaziali, in anticipo su tendenze che successivamente sarebbero state sdoganate ad altezza mainstream, in primis, cioè con maggior successo, da registi come Christopher Nolan (che forse non a caso è un fan di Ghost in the Shell). Un percorso intrapreso appunto con Only You.
Darsi perciò alla visione dei due Lamù costituisce un modo per partecipare a questo passaggio, al farsi sotto i nostri occhi di un regista e di una direzione che hanno dato un input forse esplorato ma non a fondo. Lontani dalla compiutezza acquisita da un Satoshi Kon, anche perché al di là dei confini imposti da un’industria che col tempo è cambiata; nonché certamente debitore del genio della Takahashi, in Lamù Oshii in particolar modo ha trovato l’ambiente ideale entro il quale maturare. Un luogo in cui mettersi per davvero alla prova dopo un lungo apprendistato, com’è d’uopo in questo settore. Lamù ed Oshii si sono trovati, e da quest’unione è nato qualcosa per cui c’è ancora oggi da manifestare gratitudine. Peciò sì, ci si perda, lasciandosi destabilizzare da uno degli esempi più alti e corroboranti di demenzialità in ambito di lungometraggio, non solo d’animazione e/o giapponese.