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L’avenir: recensione in anteprima del film in Concorso a Berlino 2016

Una Isabelle Huppert da premio è la protagonista dell’ultimo, delizioso film di Mia Hansen-Løve. Con L’avenir la regista francese ripropone il suo interesse per il tempo che passa, stavolta attraverso la vicenda di una cinquantenne che attraversa un periodo difficile, forse il più difficile

pubblicato 14 Febbraio 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 08:43

L’avenir è un film celebrante la vita. Non quella del singolo, anche quella però. Ne è proprio intriso. La visione sottesa a quest’ultimo lavoro di Mia Hansen-Løve è più trasversale, più ampia e dilatata, perché in esso si allude all’esistenza per ciò che è. E dire che nel farlo opera un giro lungo, passando addirittura per l’annosa, mai del tutto sopita diatriba tra borghesi ed anticonformisti, «discorsi vecchi», come dice Nathalie (Isabelle Huppert) ad un suo ex-alunno.

Con L’avenir la Hansen-Løve tenta nel suo piccolo di offrire un contributo, non tanto per superare concretamente questo impasse intellettuale, bensì per ricordarci che altre cose arriveranno, come sempre sono arrivate. Che detto così puzza quasi di banalità, frase preconfezionata ad uso e consumo di chi non vuole prendersi la briga di pensare; per fortuna allora che questo film riesca a trovare il modo di dimostrarci come invece certe parole siano semplicemente dettate dal tanto bistrattato senso comune.

Nathalie è una professoressa di filosofia, marito filosofo anch’egli, vivono a Parigi, hanno due splendidi figli. Sono degli ex-sessantottini, più che altro perché hanno avuto l’età che hanno avuto in un periodo in cui non esserlo era anomalo. Ora sono invecchiati, o maturati che dir si voglia, e a certe cose ci credono meno. Saranno le responsabilità, il fascino della vita agiata, che corrompe anche i cuori più induriti. Sarà. Solo che adesso tocca a loro la parte di spettatori, mentre le nuove generazioni attraversano quel periodo lì, mossi da pulsioni analoghe, che non si capiscono.

Nathalie si separa dal marito; nulla di pirotecnico, d’altronde dispongono di un retaggio che consente loro di prendere atto di questo epilogo con raziocinio. Fino a un certo punto, è evidente. La Hansen-Løve reitera nuovamente il suo pallino per il tempo che passa, sebbene rispetto a Eden la cosa sia meno marcata; anche qui però passano gli anni, e la sua macchina da presa è sempre lì a registrare quali cambiamenti hanno portato ai suoi protagonisti. Il suo è un cinema che, in altre parole, non contempla la stasi, non può fare a meno di fuggirla a priori.

È questa la componente che più di tutte rende interessanti le storie che di volta in volta ci racconta, perché i suoi personaggi sono vivi, o per lo meno non si fatica troppo a ritenerli tali. In più in L’avenir aggiunge un tocco di grazia, quella joie de vivre che stando ai presupposti non si direbbe proprio, perché questi personaggi ce li hanno raccontanti una miriade di volte, il più delle quali annoiandoci, ripetendo sempre le stesse cose. Non stavolta.

Tanto merito alla Huppert, ironica, dotata sempre di una femminilità unica; la sua Nathalie magari non serve a farci capire chissà cosa, ma non si smetterebbe di seguirla. Quando attraversa un momento particolarmente delicato, decide di recarsi presso una villetta in campagna dove un gruppo di giovani filosofi intende scardinare meccanismi e regole di una società che sta loro stretta; senza fare la maestrina, col disincanto di chi ha già abbastanza primavere sulle spalle, osserva questo gruppo di volenterosi che dalla loro hanno il tempo. Tempo per sbagliare soprattutto, che è sempre tempo ben speso. E l’accostarsi a loro serve a lei per tornare in sé.

Altro esempio qui al Festival, dopo Heidi, di opera essenziale, a partire dalla scrittura, privata di orpelli inutili. Un film in generale sobrio, che non intende affatto prendere le distanze da una certa tradizione, che qui viene anzi esaltata, a cui, insomma, la Hansen-Løve implicitamente tributa il giusto riconoscimento. Lo fa riadattandola, per quanto possibile, ai tempi. Perché se sa di morto non è tradizione, è solo morto.

Qui invece si parla di eredità, di gioventù, un discorso che, portato avanti da una ragazza dell’età della regista, assume tutto un altro spessore. Le stagioni che si avvicendano, il passaggio di testimone da una generazione all’altra. Tutto si tiene, perché tutto ha un suo posto; infatti quanto è azzeccata quell’ultima sequenza di Nathalie che tiene in braccio un neonato, facendolo smettere di piangere, qualche istante prima dell’inquadratura finale, che ci ricorda quanto e cosa ci sia voluto per arrivare a quel punto.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”8″ layout=”left”]

L’avenir (Francia, 2016) di Mia Hansen-Løve. Con Isabelle Huppert, Edith Scob, Roman Kolinka, André Marcon, Marion Péloquin e Sarah Lepicard.

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