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Lincoln, Spielberg e la poesia della luce

L’omaggio grafico di Cineblog al regista Steven Spielberg e al suo Presidente Americano.

pubblicato 27 Gennaio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 18:11


Guardando indietro e riesaminando l’intera filmografia di Steven Spielberg fino ai giorni nostri non è un azzardo forse affermare che la stessa può essere ricondotta essenzialmente ad un grande, incredibile trattato sulla luce.

Lo affermo non con la presunzione del critico bensì con l’umiltà dello spettatore che, non potendo competere con altre e ben più valide letture critiche della sua opera, arrischia una sua visione personale, basandosi unicamente sulle sensazioni provocate nel corso del tempo dai suoi film.

Dopotutto, se è vero che l’opera cinematografica appartiene al pubblico prima ancora che al suo regista, è altrettanto lecito che chi sta seduto appena sotto il “magico cono di luce” possa individuare nelle immagini che scorrono frammenti di altre verità o farsi catturare da suggestioni assolutamente individuali.

E così fin da quando, molto piccolo, fui “investito” da quell’epifania di luci e suoni che era (e resta ancor oggi) Incontri ravvicinati del terzo tipo, non potevo fare a meno di percepire l’implicita poesia di una simile festa di suoni, colori e bagliori; certo del tutto inconsapevole del loro significato o incapace di comunicarne ad altri la bellezza, ma di sicuro non immune al calore con cui già scaldavano il cuore di un bambino o ne sconvolgevano i sensi di (futuro) cinefilo. Spielberg si era già insediato dentro la mia sensibility prima ancora che nella mia ragione e da allora non se n’è più (fortunatamente) andato.

E le luci, inevitabilmente, hanno continuato ad accompagnare la mia crescita, fra visioni casalinghe di capolavori e nuove esperienze consumate al cinema. Bagliori di luce solare filtrata dall’acqua nell’attesa che le fauci del Leviatano ne squarciassero la calma apparente (Lo Squalo), luci oltretombali che danzavano furiosamente fuori dall’arca dell’alleanza in un abbraccio fra umano e divino che ancora oggi atterrisce (I predatori), per non parlare poi di quel meraviglioso canto sulla diversità (E.T.) che usa la luce, ora blu e fredda come lo spazio, ora dorata e calda come un abbraccio, per dare spessore a un sentimento capace di superare tutte le barriere interstellari.

Non è stato (solo) l’extraterrestre più buffo e indifeso del mondo a conquistarmi insieme alle platee di tutto il globo, ma anche il modo in cui il suo creatore, ad ogni inquadratura, lo cingeva d’affetto, “illuminandolo” con grazia e poesia. Ma la luce non ha mai smesso di illuminare i sogni di celluloide dell’eterno infante di Hollywood, neanche quando questi ha dovuto abbandonare, giocoforza, le suggestioni del racconto fiabesco per inquadrare al meglio le mille (altre) contraddizioni del suo paese d’origine (Il colore viola, L’impero del sole, Munich), i suoi incubi bellici (Salvate il soldato Ryan) o le ferite ancora aperte della memoria (Amistad e soprattutto quell’insuperato capolavoro di Schindler’s List).

E se è vero che la luce spielberghiana, così intensa quando impone al nostro sguardo gli orrori più abietti, non riesce ad essere mai insostenibile, ciò è dovuto essenzialmente a una qualità del tutto peculiare del suo cinema: quel suo porgere la realtà attraverso uno sguardo costantemente pieno di stupefazione. Si potrebbe paragonare a quello di un bambino, o a quello di uno spettatore ancora vergine di fronte alla barbarie, ma più semplicemente è quello del suo autore, incapace di filmare il mondo con occhi diversi da quelli di uno suo disincantato testimone.

E proprio perché “testimone” del tempo che scorre il cinema di Spielberg non può restare indifferente ai cambiamenti, né il suo scrutare può restare visivamente immune dalle ombre.
Ecco quindi che ormai lontano anni luce dal cinema dei fasti commerciali, quello che ha colonizzato un intero immaginario (al punto che un Super 8 ne ha potuto perfino stilare i codici), lo Spielberg attuale può permettersi di abbandonare la luminosità ancora colma di speranza di un tempo (Allen Daviau ne era il cantore) in favore di chiaroscuri sgranati e documentaristici (firmati Janusz Kaminski), più adatti a filtrare l’incubo che il sogno. La luce allora non ci accarezza più con quei suoi lunghi ed impossibili fasci quasi “divini” ma tende a spegnersi nel bianco e nero della Shoah, desaturandosi poi nel fango del D-day o contaminando la solarità della fiaba (A.I.) con nuovi spettri come la morte, l’abbandono e la (falsa) riconciliazione.

Il passato è (bianco e) nero, poco illuminato dal sole mentre il futuro (Minority Report) diviene soltanto una luce artificiale e minacciosa. E se un tempo gli alieni annunciavano festosi il loro arrivo fra cromatismi abbaglianti e il suono dei fagotti, oggi (La guerra dei mondi) sono macchine dissepolte che si stagliano minacciose nel sole accecante annunciando, con le trombe, una sterminio di massa non troppo dissimile da un olocausto.

Questa è la luce di Spielberg, quella stessa che, da spettatore e testimone, ho visto ora rifulgere ora affievolirsi e sempre “mutare” nel corso di oltre tren’tanni. Una luce che, da fiduciosa e incantata o perfino “materna”, si è fatta opaca, vacillante e perfino minacciosa, scomponendosi dietro altrettanti punti di vista, deformandosi in nuove contraddizioni, seguendo il flusso e le pieghe della Storia (quella con la “S” maiuscola), abbracciando qua e là il dubbio e piegandosi a nuove retoriche urgenze (Lincoln e l’analisi della politica, piuttosto che del politico).

E lo sguardo del fanciullo? Seppellito, magari definitivamente, dietro le più alte e gravose responsabilità dell’autore? Forse “Lincoln” si avvicina ad opere spielberghiane dal respiro più classico, o forse questa è semplicemente la veste con cui egli desidera impaginare gli intrighi di una politica sempre uguale a se stessa.

Che sia l’occhio dell’infante o quello del predicatore a parlarci però poco importa: quel che conta è che il suo cinema sappia rivendicare, ancora una volta, quella luce di cui, da spettatori, ormai non potremmo più fare a meno…

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