Lo Hobbit – La Desolazione di Smaug: Recensione in Anteprima
Secondo capitolo della nuova trilogia tolkeniana, Lo Hobbit – La Desolazione di Smaug porta lo spettatore tra le fauci di un drago mai visto prima
Dove eravamo rimasti? Ai 1,017,003,568 dollari incassati in tutto il mondo, alle 3 nomination agli Oscar e ai tanti mugugni nei confronti di Peter Jackson, tornato nella Terra di Mezzo 10 anni dopo l’ultima volta con un rischioso, atteso e temuto prequel. Diviso in 3 parti per motivi esclusivamente economici, ‘allungato’ sin dal primo capitolo ed ora, come avvenuto con Le Due Torri nel 2002, chiamato al cambio di marcia. Necessario, quasi obbligato, e finalmente diventato realtà. Perché Lo Hobbit – La Desolazione di Smaug doveva far dimenticare le perplessità inevitabilmente nate con Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato. Riuscendo nell’intento.
Ancora una volta straniante, soprattutto nei primi 20 minuti, la ‘rivoluzionaria’ visione a 48 fotogrammi al secondo, spiazzante nella parte iniziale esattamente come avvenuto un anno fa. Sembra quasi di trovarsi dinanzi ad un backstage, se non fosse che il fastidio con il passare dei minuti dimunuisca, per poi sparire del tutto. Perché l’occhio si abitua e soprattutto l’azione prende piede, lasciando talmente pochi momenti morti allo spettatore per ‘pensare’ al cambio di immagine da farlo complentamente digerire e dimenticare. Va detto che la stampa milanese ha avuto la fortuna e il piacere di poter assistere ad una proiezione in IMAX 3D allo Skyline di Sesto, con tutte le straordinarie conseguenze del caso. Tecnicamente ineccepibili, sorprendenti nella terza dimensione e trascinanti dal punto di vista del colossale audio.
Alla fine del Viaggio inaspettato, ‘costretto’ di fatto a dare il via alla storia, presentando i non pochi personaggi inediti del prequel del Signore degli Anelli, ci eravamo ritrovati con la compagnia di Bilbo e dei Nani in cammino verso Erebor. Prima di arrivare a destinazione l’allegra ciurma doveva però affrontare pericoli su pericoli, che da subito Jackson semina con sapienza ed efficacia, sfruttando nel migliore dei modi un uso della CG strabiliante, ed oggettivamente da Premio Oscar a mani basse. Dato vita al mutapelle Beorn, metà orso e metà uomo, il grande Peter si sbizzarrisce all’interno dell’inquietante Bosco Atro, cavalcando con gioia ed eleganza una ‘banda’ di mostruosi e giganteschi ragni, mai così spaventosi e credibili sul grande schermo. Cupo, finalmente dark e lentamente ‘avvelenato’ dal male che si fa strada con il passare dei minuti, Lo Hobbit – Parte 2 mette subito le cose in chiaro, grazie ad una prima lunga seguenza che paralizza, per quanto riuscita nel dover dare il necessario cambio di passo rispetto alla prima parte. Come se Jackson voglia correre i 400 metri ostacoli, il testimone delle sorprese passa di mano in mano, finendo quasi subito tra quelle millenarie degli Elfi Silvani. Ed è qui che fa ritorno lui, il mitico biondo Legolas firmato Orlando Bloom, affiancato dall’unica vera novità rispetto agli scritti di Tolkien voluta e cercata dal regista. Tauriel, interpretata dalla bella Evangeline Lilly.
Un personaggio pennellato da Jackson sui lineamenti dell’attrice, purtroppo privo di senso, poco incisivo e spesso non molto credibile, soprattutto nell’interazione con uno dei 13 nani alla ricerca di Erebor. E’ in questi minuti che Lo Hobbit tira il freno a mano. Nel momento stesso in cui Peter prova a ‘giustificare’ la presenza di Tauriel il film finisce in sosta vietata, deragliando pericolosamente. Il perché di un simile innesto, checché ne dicano regista e produttori, potrebbe essere nato nel momento stesso in cui dai 2 capitoli inizialmente annunciati questo Lo Hobbit è passato ai 3. Dovendo ‘riempire’ il minestrone, e allungare il brodo, gli ingredienti sono inevitabilmente aumentati. La parte ‘elfica’ della pellicola risulta così la meno riuscita, almeno fino a quando la compagnia non riuscirà a fuggire. Qui, con un fiume agitato e dei barili da poter sfruttare, Jackson da’ vita ad una sequenza mozzafiato, infinitamente lunga e di una difficoltà registica sfiancante, fino all’arrivo nella ‘veneziana’ e scenograficamente magnifica Pontelagolungo, ai piedi dell’agognata Montagna Solitaria dove affrontare il drago del titolo. Il temibile Smaug, malefico Re fiammeggiante che negli ultimi 40 minuti paralizzerà lo spettatore grazie ad una credibilità visiva disarmante. Un drago immenso e maestoso, in lingua originale impreziosito dalla voce di Benedict Cumberbatch e in italiano da quella di Luca Ward, che ben duetterà con un sempre più ineccepibile Martin Freeman, inattaccabile Bilbo Baggins lentamente ‘mutato’ dal male dell’anello.
Tutto questo mentre la strada della Compagnia e quella di Gandalf si separano quasi da subito, permettendo a Jackson di giocare su due piani narrativi differenti, in modo da alimentare la tensione nei confronti di quell’azione che si fa sempre più tenebrosa con il proseguo della storia. Una storia, dal punto di vista dei contenuti e delle tante, troppe caratterizzazioni da dover snocciolare spesso in pochi minuti, che tristamente langue, tanto da puntare tutto o quasi sull’effetto visivo. Che lascia il più delle volte senza fiato. Almeno 3 le grandi scene che sconvolgono per quanto mastodontiche dal punto di vista della CG (ragni, barili, drago), ancora una volta, come avvenuto 10 anni fa, platealmente impreziosita dalle scenografie naturali della Nuova Zelanda, sontuose per volontà divina. Consapevole dei limiti strutturali della stessa opera tolkeniana, neanche lontanamente paragonabile al successivo Signore degli Anelli, Jackson ha giustamente ‘deviato’ l’attenzione dello spettatore verso ‘altro’, concentrando quasi tutta la propria attenzione sullo stupore suscitato dagli effetti speciali.
Una precisa volontà che ha così finito per fare a cazzotti con quei limiti di scrittura visibili nel corso dei 165 minuti, sottolineando ancora una volta le plateali differenze con la prima trilogia di Jackson, anche da questo punto di vista ad un niente dalla perfezione. Se la svolta ‘romantica’ targata Evangeline Lilly fa ridere, a convincere poco anche le tante new entry, più o meno attese, come l’impalpabile e particolarmente borderline Luke Evans, mentre si fa ammirare Re Thranduil, criptico Elfo dalle mille sfaccettature purtroppo presto abbandonato al suo destino. Tralasciando il finale da denuncia, che taglia di netto una scena arrivata al punto conclusivo della sua lunga gestazione, Lo Hobbit 2 si divide così tra conferme ‘negative’, legate soprattutto alla scarsa ‘compattezza’ della trama ma anche all’incapacità di dare concretezza e peso ad alcuni personaggi, e positivi ritorni, vedi un’azione nuovamente trascinante e visivamente spettacolare, in grado di far volare sulle ali dell’entusiasmo quasi 3 ore di pellicola, presentandosi di fatto come un netto passo in avanti rispetto al primo non esaltante capitolo. E se tanto ci da’ tanto, con Lo Hobbit: Andata e ritorno Peter Jackson chiuderà nel migliore dei modi la sua leggendaria esperienza tolkeniana. Ma ahinoi un anno ancora ci divide dal lieto evento, tanto da ‘affidarci’, nell’attesa, al più bel drago mai visto al cinema. Re Smaug.
Voto di Federico: 7.5
Voto di Gabriele: 6
Lo Hobbit – La Desolazione di Smaug (The Hobbit: The Desolation of Smaug, Usa, 2013) di Peter Jackson; con Ian McKellen, Martin Freeman, Richard Armitage, Benedict Cumberbatch, Orlando Bloom, Evangeline Lilly, Lee Pace, Luke Evans, Stephen Fry, Ken Stott, James Nesbitt, Manu Bennett, Jed Brophy, Adam Brown, John Callen, Aidan Turner, Robert Kazinsky, Graham McTavish, Stephen Hunter, Mark Hadlow, Peter Hambleton, Andy Serkis, Christopher Lee, Sylvester McCoy, William Kircher, Ryan Gage, Mikael Persbrandt, Conan Stevens – uscita giovedì 12 dicembre 2013. Qui il trailer italiano