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L’uomo che vide l’infinito: recensione in anteprima

Più che fede e ragione, al centro di L’uomo che vide l’infinito vi è la contrapposizione tra mistero e razionale. Biopic centrato ma poco vitale quello di Matthew Brown, che mostra la parabola del matematico Srinivasa Ramanujan

pubblicato 9 Giugno 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 10:30

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Srinivasa Ramanujan (Dev Patel) è un indiano che coi numeri coltiva un rapporto particolare: li vede, ne coglie dei significati, instaura delle associazioni che nessuno riesce anche solo ad intravedere. Il tutto lo raccoglie in forma di appunti, che un giorno finiscono sulla scrivania del professor Hardy (Jeremy Irons), un illustre matematico che insegna nel prestigioso Trinity College di Cambridge. Intuendo l’importanza del lavoro di Ramanujan, il professore lo invita in Inghilterra per approfondire insieme i problemi che ha sollevato. Ma non sarà facile né per l’uno né per l’altro.

L’uomo che vide l’infinito è tratto dalla storia vera di questo giovane venticinquenne indiano il quale, da completo autodidatta, ha sconvolto il mondo della matematica con teoremi e scoperte ancora dibattute ed applicate; basti pensare che una sua formula consente di raccapezzarsi circa il comportamento dei buchi neri, ambito che non esisteva nemmeno mentre era ancora in vita. Tuttavia sono altri gli aspetti con cui un biopic del genere deve confrontarsi, ambiti con cui potenzialmente chiunque possa relazionarsi.

E va detto, il film di Matthew Brown coglie alcune chiavi di lettura interessanti, in primis la dicotomia indipendente/accademico, sul cui praticamente filo praticamente si muove l’intera vicenda. Giunto nel Regno Unito, infatti, Ramanujan ha enormi aspettative: finalmente può mostrare al mondo le sue scoperte e discuterle con alcune delle menti più brillanti in circolazione. Un sogno che s’infrange miseramente con la realtà: Hardy riconosce il genio dell’indiano, ma lo reputa troppo grezzo ed immaturo per poter portare frutto.

Questa traccia porta in dote questioni ben più profonde. Siamo nel 1913, e l’India è colonia britannica; in quel periodo c’è molta diffidenza verso coloro che provengono dalle colonie, ma soprattutto nei riguardi dei coloni, considerati inferiori a qualunque livello già per il solo fatto di essere stati assoggettati. La parabola del geniale matematico diventa perciò occasione per approntare un discorso più ampio, quantunque venato di un certo anacronismo, su un non meglio precisato razzismo, o comunque insofferenza verso una parte di mondo considerata sottosviluppata. I luminari del Trinity College non possono accettare che un selvaggio sia così dotato, ed in una delle svariate scene piuttosto didascaliche che compongono il film, Ramanujan viene richiamato minacciosamente da un professore perché lo aveva anticipato nella conclusione di un’equazione.

Il rapporto tra Srinivasa ed Hardy rimane comunque centrale, e a dire il vero si lascia seguire. Da un lato abbiamo uno che crede fermamente nella divinità, tanto da dire «un’equazione per me non ha senso, se non rappresenta un pensiero di Dio»; dall’altro un ateo convinto, che nella divinità vede per lo più una superstizione. La matematica diventa perciò l’unico elemento in comune, anche per via dell’incapacità dell’inglese di instaurare un vero e proprio rapporto. Va però operata una netta distinzione tra i temi che L’uomo che vide l’infinito solleva e come invece li solleva, sia in termini di sviluppo narrativo, che a livello di forma; la mano di Brow mi è parsa pesante ed il suo modo di riprendere l’azione a tratti distraente.

Il punto è che Ramanujan è senz’altro un genio poiché propone intuizioni che nessuno ha mai avuto prima e che hanno tutta l’aria di essere veritiere; il conflitto sta nel fatto che vani si rivelano buona parte dei tentativi di dimostrare tali intuizioni. Si avverte che questa fu una stagione significativa nella storia della matematica e forse del pensiero in generale, e molto sembra si debba a questo giovane indiano se oggi un briciolo di buon senso sia sopravvissuto; siamo in un’epoca, i primi del Novecento, intrisa ancora di positivismo e razionalismo estremi, per cui l’innesto di un elemento estraneo come il genio venuto dall’India costituisce una bomba.

Va perciò riconosciuta questa capacità di renderci persuasi circa tale scenario, se non fosse però che anche L’uomo che vide l’infinito ad un certo punto stabilisce esser più opportuno adeguarsi a certe formule standard, per certi versi negando il senso stesso della storia che racconta. Perché in fin dei conti si tratta di un biopic alquanto codificato, perciò essenzialmente smunto, vitale al minimo. Rispetto ad altri recenti lavori del medesimo genere c’è di buono che Brown riesce per lo meno a prendere a priori una scelta e tutto sommato aderirvi sino alla fine. Il che non ribalta le sorti dell’operazione, che ma quantomeno lo solleva un pochino dall’anonimato di tanti altri, aleatori biopic.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5.5″ layout=”left”]

L’uomo che vide l’infinito (The Man Who Knew Infinity, Regno Unito, 2015) di Matt Brown. Con Dev Patel, Jeremy Irons, Devika Bhise, Toby Jones, Stephen Fry, Jeremy Northam, Kevin McNally, Richard Johnson, Anthony Calf, Padraic Delaney e Shazad Latif. Nelle nostre sale da giovedì 9 giugno.