Lupino: Recensione del film di François Farellacci
Milano Filmmaker 2014: l’adolescenza senza filtri di Farellacci in Lupino si ferma a metà strada. Se non altro perché parte di un percorso che deve ancora svilupparsi e su cui il regista dovrà tornare. Da spettatori è quello che vorremmo sentirci dire, ossia che questa storia ha un seguito, non importa quale
A due passi da una spiaggia sorgono dei caseggiati. In fila, ammassati, a mo’ di case popolari. Siamo vicini a Bastia, eppure lontani dal centro. Una zona isolata eppure viva, dove giovani generazioni si affacciano all’età adulta confinati in un’area apparentemente sottosviluppata. È di loro che Lupino di François Farellacci s’interessa. Li segue, indugia sui loro volti, cerca di riprenderli soprattutto mentre sono in gruppo. Perché in fondo ciò che più conta sono quelle dinamiche lì.
Il perché di tutto ciò è presto detto. I ragazzi che si aggirano per quelle zone sono ragazzi come tutti gli altri a quell’età, adolescenti in cerca di un senso, di obiettivi che diano loro modo di trovare un posto, e con esso qualificarsi. Anche quando non se ne rendono conto, quando il loro naturale desiderio di sciogliersi nel branco, sentirsi parte di un’entità che annulli differenze e quant’altro; ecco, nonostante tutto questo, loro in realtà hanno sempre lo sguardo altrove.
Uno di questi ragazzini scruta il mare da una collinetta, spiegando all’amico che quando si scorge nitidamente il lembo di terra opposto vuol dire che il giorno dopo piove. Un’osservazione di per sé innocua, ma che in quel momento ha un che di alto, quasi fosse il frutto di anni e anni d’esperienza. Qualche parola, due-tre frasi laconiche, e si torna coi piedi per terra: «come si chiama quella che mi vuole presentare la tua amica? […] Ma è bona? Vabbè, tanto me la scopo e poi la mando a cagare». Ecco appunto.
D’altronde di cos’altro dovrebbero discutere dei ragazzini intorno ai 16 anni, e manco? A colpire, ad intrigare, in qualche modo, non è l’ordinarietà di questi ragazzi, il loro appartenere alla media, bensì il loro starci stretti in quella condizione. Intelligentemente Farrellacci oppone l’atteggiamento dei singoli ragazzi, Orsu in particolare, quando stanno in gruppo e quello che tengono quando sono da soli.
Una scena chiave in tal senso è la seguente: Orsu mostra, attraverso delle foto, una piccola casetta che ha costruito insieme agli amici. Si vede che ne va fiero: oltre a un divanetto, c’è pure un pericoloso volatile che non sopporta di essere fissato. Mentre il ragazzo mostra queste immagini dal suo cellulare, riceve continuamente telefonate da un amico, che Orsu sistematicamente rifiuta: è troppo preso dall’illustrare le “sue cose” a noi spettatori. Come a dire «eccomi, ci sono, faccio questo e faccio quest’altro. Mica perdo solo tempo con i miei amici!».
Insomma, di carne al fuoco ce n’è. Tuttavia qualcosa alla fine manca. Senz’altro la durata non aiuta, perché in cinquanta minuti non è facile farci entrare, trattenerci e congedarci così facilmente. E non è tanto l’impressione che quel piccolo mondo, quei ragazzi, abbiano ancora molto da dire, perché in ciò che non dicono si cela il senso di Lupino, l’apatia, quasi la rassegnazione verso un futuro segnato. Più che altro è la sensazione di aver avuto accesso ad un frammento, che ha un suo perché ma che senza ciò che ne rimane appare un po’ fragile.
D’altronde Farellacci aveva già girato un documentario in quella zona, per di più con alcuni ragazzi che compaiono in questo suo ultimo lavoro. Perciò, forse, Lupino andrà rivisto più avanti, quando magari lì ci si tornerà fra qualche anno, un po’ come ha fatto Volker Koepp con il suo In Sarmatien. Allora il progetto potrà considerarsi non dico compiuto, perché nessuna opera è mai davvero compiuta, ma per lo meno completa. Per adesso conosciamo una parte della storia, in attesa di sapere come si svilupperà la vita di quei ragazzi di cui quasi quasi facciamo per affezionarci.
Voto di Antonio: 6½
Lupino (Francia, 2014) di François Farellacci.