Venezia 2017, Mektoub, My Love: Canto Uno – recensione del film di Abdellatif Kechiche
Festival di Venezia 2017: un inno alla gioia di vivere che non è però oblio, Mektoub, My Love: Canto Uno è esaltazione della vita attraverso le forme. Un Kechiche da Leone d’oro
Come si dice «ti amo» in arabo? Ophélie discute animatamente con un’amica; c’è chi traduce le due parole più inflazionate al mondo in un modo, chi un altro, ma nessuno è davvero sicuro. Che importa? Siamo nel Sud della Francia, fatta di sole, mare, feste e alcol, oblio delle proprie origini che però s’impongono loro malgrado. Ma soprattutto c’è la spensieratezza. Mektoub, My Love: Canto Uno è anzitutto spensierato, esaltazione della giovinezza, la donna, la bellezza, del tempo, perciò della vita. Un film in perenne deflagrazione, che, per quanto gli riguarda, potrebbe non fermarsi. Mai.
Amin torna nel paese natale per le vacanze, lui che oramai abita a Parigi inseguendo il sogno di farsi produrre una delle proprie sceneggiature; ha lasciato Medicina apposta ed ora per mantenersi lavora in un ristorante. Di nuovo, non importa: il grigiore della capitale è un pallido ricordo, deve esserlo, né potrebbe diversamente come il giovane si ricorderà subito. Le giornate di Amin sono sospese in un limbo che lo meraviglia, lo illumina, ed allora non gli resta altro che osservare attentamente ogni cosa, una in particolare: le donne. Queste creature sublimi, quasi mitologiche, di una bellezza eterna. Kechiche ancora una volta riparte dai corpi, dal corpo, quello femminile, che scompone e studia in maniera ossessiva eppure mai estenuante. Sculture incantate che si muovono nello spazio dando un senso a tutto il resto.
Mektoub, My Love è musica, nostalgia, verità. L’amore di cui al titolo ha a che vedere infatti con tutte queste cose qui, informandole e venendone informato, in quel continuo scambio reciproco e proficuo che lo rende una delle poche cose per cui val la pena vivere, anche quando è troppo terreno, perciò effimero. Niente c’inganna meglio e da niente ci piace di più essere ingannati che da questo mistero, del quale Deo gratias non si verrà mai a capo. Toni, il cugino di Amin, risponde in un modo, l’unico che conosce, gettandosi a capofitto senza lasciarsi dietro una sola goccia di godimento, mai sazio, mai pago, sempre in cerca di qualcosa di nuovo che ne possa anche solo per un po’ placare gli appetiti. Amin no, lui è davvero soggiogato da tanta meraviglia; non per niente si trascina in questa condizione di lucido stupore, mentre segue l’incontro/scontro di queste forme sempre uguali eppure sempre diverse.
Stupefatto, il giovane trova nel non scegliere la sua ragion d’essere, perché già quello è vivere, ossia attendere che qualcosa accada, qualsiasi cosa. Uno stato tipicamente estivo, con le sue promesse, le sue delusioni e tutto ciò che ci sta in mezzo. Quelle di Mektoub, My Love sono tutte scene madri, lunghe, spossanti, ma è l’unico modo per raggiungere quella verità che Kechiche dai suoi attori ottiene sempre, sistematicamente. Che lavoro sulla recitazione, quanta capacità di dirigere gli attori senza mai farsi vedere, manco per sbaglio; come un mago, il trucco c’è ma non si vede. E di fronte a noi scorre semplicemente la vita; la vita come solo una macchina da presa riesce a raccontarla, come Rohmer ha saputo raccontarla. Come incalza questo Canto Uno, e con quanta veemenza! Amin e Toni incontrano due francesine di Nizza, fanno amicizia, si formano subito le coppie, Toni va al sodo in acqua, mentre lo sguardo profondo di Amin continua a studiare la fisionomia di una ballerina che si lascia scrutare con malizia.
C’è Ophélie, fisico statuario nonché amica di una vita, che ha una liaison con Toni ma sta per sposarsi con Clement, un militare che è sempre fuori in missione. Amin ne è visceralmente attratto, lei lo intuisce, un po’ lo sa un po’ ci spera, perché a quale donna non piace piacere? Le occhiate che si scambiano Ophélie e Amin sono una delle cose più eccelse in assoluto: una complicità strana, particolarissima, corroborante. Cos’è? Non vi è risposta a questa domanda, per il semplice fatto che loro stessi debbono ancora scoprirlo, e non lo faranno certo entro la fine del film, con buona pace nostra che li seguiremmo anche durante i momenti più banali. Eppure di banalità neanche l’ombra nelle interminabili scene d’ordinarietà di cui è composto Canto Uno: Kechiche trae il massimo da ogni gesto, ogni parola, detta o mozzicata, restituendoci attraverso una porzione di realtà la verità. La verità dei personaggi, di quel contesto, di un’epoca, anche quando li scaraventa tutti sulla pista da ballo di un locale o di una discoteca, passando in rassegna il meglio della disco dance di metà anni ‘90.
Tutti si prendono ma poi si lasciano, anche se è quasi sempre un arrivederci, come se ciascuno di loro avesse incrociato l’altro (o gli altri) per puro caso nel corso delle rispettive esplorazioni. E che bello reincontrare l’Hafsia Herzi di Cous Cous dieci anni dopo, il cui innesto acuisce quella calorosa sensazione, quel tepore che per convenzione chiamiamo nostalgia, di cui Canto Uno è profondamente impregnato; in lei troviamo la generazione di mezzo, tra gli adulti e gli adolescenti, con un piede nell’una ed uno nell’altra dimensione. Restituendoci quella sana materialità di cui il nostro tempo ha smodato bisogno, in bilico tra materialismo sfrenato e forme di spiritualismo che alludono ad una purezza che di umano non ha nulla. Umanità, certo, ma nella migliore accezione del termine, quella che va oltre le forme per riappropriarsi di ciò a cui rimandano, da qui l’incessante ammirazione di Amin, che si limita a contemplare gli oggetti della sua attenzione, siano essi visibili (come i conturbanti corpi delle “sue” donne) o invisibili (come le relazioni, le ansie e il piacere), ma anche l’affondare i denti in tutto ciò, di Toni.
Un film gioioso Mektoub, My Love, orgogliosamente tale, che ha il coraggio di esserlo. Celebrante l’esistenza in ogni sua forma, sia essa la nascita (si veda la poetica sequenza relativa al parto multiplo di una pecora, in penombra), la maturazione o quella fase che è un po’ l’una e un po’ l’altra. Un’opera necessaria per la semplice ragione che fa stare bene, che glorifica momenti, fattispecie e situazioni che tutti conosciamo e dalle quali tutti abbiamo tratto qualcosa, talvolta di bello, altre di meno bello. Kechiche ci ricorda perché cresciamo, perché dobbiamo farlo, motivando quest’obbligo morale ad andare avanti senza farsi troppo condizionare da quel che è stato a patto di non dimenticarlo, ma nemmeno da quella cosa astratta che è il futuro. Canto Uno si apre su un passo del Vangelo ed uno del Corano, eppure in Mektoub, My Love a parlare sono gli autori del Qoelet (Ecclesiaste) e del Cantico dei Cantici, con quell’invito ad una contentezza mai becera e quell’erotismo che è l’esatto opposto di tutto ciò che è volgare e finanche pornografico. Noi stiamo lì, tra gli occhi bellissimi di Amin, la sua espressione così virile, ed il mondo che ci danza davanti con la grazia unica, ancestrale di cui solo la donna è stata dotata.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”10″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”9″ layout=”left”]
Mektoub, My Love: Canto Uno (Francia, 2017) di Abdellatif Kechiche. Con Shain Boumedine, Ophélie Baufle, Salim Kechiouche, Lou Luttiau, Alexia Chardard ed Hafsia Herzi. In Concorso.