Memorie di una Geisha
Immaginare di scrivere una storia, di narrare di costumi orientali con il piglio del cinema americano, oltre che non facile, rischia di essere anche fuorviante. Eppure, diamo atto a Steven Spielberg, di aver centrato, insieme alla regia affidata a Rob Marshall, la delicatezza di questa figura lontana e, in parte improponibile alla nostra civiltà, come
Immaginare di scrivere una storia, di narrare di costumi orientali con il piglio del cinema americano, oltre che non facile, rischia di essere anche fuorviante. Eppure, diamo atto a Steven Spielberg, di aver centrato, insieme alla regia affidata a Rob Marshall, la delicatezza di questa figura lontana e, in parte improponibile alla nostra civiltà, come quella della geisha.
Se non fosse una storia ispirata a vicende accadute, la vita di Chiyo ( Siyi Zhang ), bambina di nove anni venduta dalla sua famiglia ad una casa di geisha, sembrerebbe l’ amaro inizio della favola di Cenerentola, con la figura esile e sofferta della protagonista che briga per crearsi una collocazione in una famiglia che gli è ostile fin dall’ inizio. E, proprio come Cenerentola, Chyvo, è una bambina che dovrà crescere in fretta e imparare da subito le prevaricazioni di un ambiente che le mette contro quella sua stessa bellezza, quella asprezza, se vogliamo, in contrapposizione all’ arrivismo di Hatsumomo ( Gong Li ), altra geisha, in perenne conflitto con la ragazza e il suo mondo circostante.
Non si può restare insensibile al fascino di Chyvo, alla forza interiore di uno spirito libero, ribelle, ma apparentemente rassegnato, agli sguardi ora dolci, ora impetuosi, che si mischiano alla speranza di un riscatto interiore che dovrà venire dalla scelta di un uomo. Così come non si può restare indifferenti a quella bellezza pura nei visi bianchi di cipria….
Perché piacerà questo film, tanto distante dalla nostra civiltà, dalla nostra cultura e dai nostri costumi. Forse perché in “ Memorie di una Geisha “ ci si sforza di credere alle fiabe, oppure, più probabilmente, perché sappiamo bene che di fiaba non si parla e, ciò che è confezionato col taglio di una favola, altro non è che una realtà lontana, nel tempo e nello spazio, ma coi sapori profondamente drammatici di quella civiltà.
Bisogna dar atto a produttori e registi di esser riusciti a creare un’ ambientazione artistica di sicuro effetto, non foss’ altro per non essersi distaccati mai dalla vera realtà di questa cultura orientale. Luci soffuse, colori, scenografie impetuose e soavi, commenti musicali in linea con le immagini, avvolgono l’ atmosfera ora dolce, ora amara come il fiele, che si mischia agli sguardi trasognati della donna orientale del tempo. Anche la ritualità, dal trucco, alla scelta del Kimono, è cadenzata da quel ritmo lento e leggiadro in sintonia con le fattezze della geisha. Ma, come un monito foriero di improvvisi cambiamenti, incombe la guerra in questa spiritualità effimera e col secondo conflitto mondiale, quello che pareva un assunto granitico di una cultura impermeabile al resto del mondo, si incrina per poi sgretolarsi sotto l’ impeto di modelli più dinamici rappresentati dai costumi e dalla cultura occidentale, cui alla fine finisce per inchinarsi.
Modelli diversi, contrapposte ideologie e visioni d’ insieme della vita, forse viste da una stessa prospettiva, dall’ autore del romanzo, l’ americano Artur Golden, dal produttore e dal regista, anch’ essi americani. E, per quanti sforzi facciano per non intaccare con la propria visione del mondo tipicamente occidentale, l’ atmosfera quasi idilliaca, di quegli ambienti, finiscono col riflettere, fors’ anche eccessivamente, una scuola di pensiero troppo lontana dagli sguardi incantati delle geisha, creando ( oppure ponendo ), loro malgrado, proprio quell’ interrogativo che incomberà, pesante, sullo spettatore, alla fine della pellicola. Quale dei due mondi è più vero e disincantato dell’ altro?
Il risultato, forse unica pecca di tutto il film, l’ aver voluto ammantare i personaggi centrali della storia, dello stesso filone melodrammatico tanto caro a noi occidentali e, in questo percorso, la purezza delle forme, la grazia delle donne all’ interno delle geisha, finisce per soffrirne palesemente sotto quella larvata arroganza che proviene dalla supremazia di chi alla fine vince, riuscendo a trasmettere, con forza, modelli di cultura tanto distanti dalle soavi donne orientali.
Una favola, avevamo detto all’ inizio e come una favola triste, il film si conclude, non con Cenerentola che sposa il Principe Azzurro, ma con una geisha triste che finisce per non poterci insegnare più niente del suo mondo, internamente snaturato e troppo occidentalizzato, come quello che han finito per trasmetterle profondamente dentro l’ anima.