Nessuno come noi: recensione in anteprima
Popolato da personaggi che si risolvono più in contenitori di frasi ad effetto in luogo di maschere verosimili, Nessuno come noi si accosta in maniera vistosamente maldestra ai loro rispettivi bivi esistenziali
Vince (Vincenzo Crea) è letteralmente invaghito della sua migliore amica, Caterina (Sabrina Martina); stanno sempre insieme, a scuola, dopo scuola, sempre. Lei però sta con un ragazzo più grande, che ha la Vespa ed è un belloccio. Vince invece è solo un bravo ragazzo, che scrive racconti guardando le persone che si affacciano al balcone, il classico tipo a cui una ragazza preferisce raccontare i segreti piuttosto che vederlo come qualcos’altro. Ma questa commedia romantica non è solo di Vince, bensì pure di Umberto (Alessandro Preziosi), professore universitario che porta il figlio asino e svogliato, Romeo (Leonardo Pazzagli), in una scuola pubblica per amore di farlo studiare; qui incontra la professoressa Bottone (Sarah Felberbaum), Betty, insegnante d’italiano del figlio, che di lì a poco gli fa perdere la testa.
Quella di Nessuno come noi è una storia, o per meglio dire un insieme di storie, che conosciamo anche troppo bene: di adolescenti che cominciano loro malgrado a prendere confidenza con quanto capiterà loro in età adulta, di adulti che non riescono a scrollarsi di dosso certe ossessioni adolescenziali, l’ansia del nuovo amore, quello che è intenso come poche cose almeno all’inizio, perciò bisognerebbe spesso ricominciare, ché tanto la fiamma prima o poi si spegne e senza quella si muore di freddo. Siamo nel 1987, e il film di De Biasi, sulla scorta del romanzo di Bianchini, sembra più mosso dalla volontà di rievocare qualcosa, sensazioni legate a ricordi, delusioni, scoperte, anziché dall’esigenza o anche solo il desiderio di raccontare qualcosa.
C’è tanto, troppo che non va in Nessuno come noi, un film popolato da personaggi involontariamente tristi, tali non per via di ciò che gli capita, ma perché triste è l’approccio alle rispettive vicende, a fronte di maschere dietro cui troviamo gusci vuoti, svuotati. Lo è anzitutto alla luce di quel vizietto che a quanto pare non riusciamo proprio a toglierci, ossia portare su schermo personaggi “scritti”, da cui non trasuda un minimo di verosimiglianza anche quando si trovano coinvolti in situazioni da cui una goccia di verità potrebbe pure venire stillata. Nulla da fare, questi personaggi, che parlano come un libro e si muovono come dei soldatini, niente possono concretamente dirci delle seppur delicate fattispecie in cui sono coinvolti, o forse sarebbe meglio dire, da cui vengono travolti.
Un’esposizione così piatta e incolore a fronte di contenuti di per sé deboli, costellati di scene francamente poco comprensibili, come quando Betty e una collega discutono animatamente su cosa significhi essere l’amante, mentre la proprietaria del ristorante presso il quale stanno pranzando origlia in disparte, facendo finta di servire ai tavoli, inquadrata di scapocchio; la scena, nemmeno così tanto secondaria (infatti dura più di qualche minuto), si conclude con la ristoratrice che si rivolge ad una terza persona chiedendogli di portare il conto «alle due bagasce», riferendosi a Betty e la collega. È una questione di trade-off, se vogliamo: siamo sicuri che ciò che guadagni con questa uscita (immagino una risata), compensi ciò che perdi? Perché c’è modo e modo di stemperare, e questa scelta non consiste in altro che in una nota decisamente stonata, già sulla carta palesemente immotivata.
Ma il passaggio che forse più di tutti si pone quale emblema, metafora della portata di Nessuno come noi, sta in quello scorcio dalla finestra che dà sulla Cattedrale del Duomo di Milano, tipo che per chiarire a livello visivo che sono arrivato a New York, dopo averlo esplicitamente anticipato un attimo prima, mi affaccio da un appartamento a caso in quel di Manhattan e la prima cosa che si vede è la Statua della Libertà. Involontariamente questa scena diviene espressione di un equivoco di fondo, che alla fine informa l’intera impalcatura del film, già a monte, ancora prima della sceneggiatura: si tratta del volerci a tutti i costi mettere a parte di ogni singola cosa, un’emozione, una difficoltà, un ostacolo, tutto. Non solo. Se possibile, ad essere ancora più inopportuno, quasi molesto, è il modo in cui ci si vuole costringere ad esserne informati; quindi, come per indicarti in maniera inequivocabile che sono a Milano ti mostro la Madonnina, per farti sapere con altrettanta certezza ciò che un determinato personaggio sta sperimentando in un dato momento te lo dico chiaro e tondo, anzi, ti spiego pure perché.
Quest’ingessatura così televisiva, sia in merito alla già citata esposizione che rispetto a dei personaggi che non vengono quasi diretti, lasciati come sono a ripetere a pappagallo delle battute, rappresentano un fenomeno sempre meno spiegabile dalle nostre parti. Viene infatti da chiedersi: a chi si rivolge Nessuno come noi? Con chi vuole stabilire un contatto? O meglio… con chi può stabilirlo? La ricostruzione è modesta nella migliore delle ipotesi, giusto qualche bomber smanicato, Take on Me, gli Spandau Ballet, qualche capigliatura un po’ meno usuale e stop. Sui temi evocati, se possibile, siamo messi pure peggio, e qui mi ricollego alla tristezza di cui in apertura.
Come si può infatti immaginare credibile una storia che nel 2018 si sofferma con entusiasmo quasi ingenuo su una famiglia borghese che si sfascia, mentre il poveretto, figlio di proletario Vince si pone quale unica figura davvero senza macchia, un puro, in questo maldestro ancorché velato accenno ad una lotta di classe (!) che si ripropone attraverso scene terribili come questa (il padre di Vince segue le partite del campionato alla radio, finché non apprende che la Juve ha preso gol; il papà sbotta, la madre fa notare che in fondo si tratta solo di calcio, allorché il padre, di tutta risposta, se ne esce così: «non capisci niente! E se domani l’avvocato si sveglia male e ci mette tutti in cassa integrazione?!»)? Un’indecisione che emana appunto la stessa forma, che avendo basi precarie si risolve nel compitino da TV, né può aspirare ad altro.
Non si faccia infine riferimento ad una sorta di sensibilità verso un non meglio precisato cinema medio: in primis perché Nessuno come noi non si cimenta esattamente in quel campo, e in secondo luogo poiché, semmai, film come questi non fanno che ricordarci, in modo peraltro martellante, quanto manchi al nostro cinema un’idea non dico unificante ma quantomeno riconoscibile in tal senso. Questi personaggi non esistono, ma soprattutto non sono interessanti, per lo più veicoli di frasi ad effetto; esistono, o sono esistite, certe fattispecie, tipo il padre che lascia madre e figlio per una nuova fiamma, due amici che litigano per una ragazza, e queste sì, potrebbero catturarci, al peggio farsi seguire con un minimo di trasporto. Tutti elementi di cui in Nessuno come noi non vi è praticamente quasi traccia.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”3″ layout=”left”]
Nessuno come noi (Italia, 2018) di Volfango De Biasi. Con Alessandro Preziosi, Sarah Felberbaum, Vincenzo Crea, Leonardo Pazzagli, Sabrina Martina, Christiane Filangieri, Davide Campagna, Elisa Di Eusanio e Lorenza Veronica. Nelle nostre sale da giovedì 18 ottobre 2018.