Noir 2016: Wùlu – recensione del film di Daouda Coulibaly
Bella sorpresa l’africano Wùlu di Daouda Coulibaly, che in maniera competente racconta uno spicchio di Africa, divincolandosi dall’impegno sociale fine a sé stesso e veicolando la vicenda attraverso le peculiarità dei film di genere
Ladji è stanco di staccare biglietti per una piccola compagnia di trasporto che lo paga poco e male; il suo sogno è quello di diventare un conducente, ambizione che gli viene oramai da troppo tempo negata. Decide allora di cambiare attività, optando per qualcosa di meno trasparente: accetta così di fare il corriere e trasportare carichi di droga da un Paese all’altro. Comincia così la sua scalata alla vetta, sulla falsa riga di Scarface, del cui messaggio Wùlu risente forse in misura maggiore rispetto all’incipit narrativo.
Daouda Coulibaly dimostra una dimestichezza notevole con gli strumenti del racconto per immagini, servendosi di poche cose ma bene. Basti pensare che questo suo ultimo lavoro è totalmente immerso in un preciso periodo storico, che coincide con il colpo di stato avvenuto in Mali nel 2012; il regista originario del Mali, però, parte da lontano, ossia dal 2008, così da rendere verosimile il percorso di questo giovane africano alle prese con quello specifico contesto. Ed è una parabola che si lascia seguire molto bene a dispetto della distanza rispetto alla nostra quotidianità, essenzialmente per due motivi.
Il primo è che, di fondo, le peripezie di Ladji celano una verità di portata ben più ampia rispetto al contesto e all’ambientazione; il ragazzo infatti è mosso da una sincera ambizione, indotta anche dal desiderio di riscatto rispetto ad una realtà che evidentemente non tollera più, segnata dalla povertà e dalla miseria anzitutto. In secondo luogo, come già ravvisato, è proprio Coulibaly a rendere il tutto molto scorrevole, dando vita ad un thriller senza compromessi, abbastanza asciutto e verosimile. Tutto ciò senza affatto dimenticare il cinema, di cui il cineasta africano ha un’idea per nulla approssimativa; sa per esempio quand’è il momento di infilare una scena surreale, vagamente onirica, e l’aspetto interessante è che funziona pure.
Malgrado infatti i chiari riferimenti, non è del tutto corretto stipare Wùlu nell’armadio dei film socialmente impegnati, dato che l’impronta di questo tipo rappresenta solo uno dei colori con cui viene dipinto il quadro. Anche quando si fosse infatti totalmente avulsi dalla vicenda, si resta coinvolti da quanto avviene, sebbene certi elementi vengano dati per scontati – non a caso non risulta del tutto chiaro come si sia sostanziato il rovesciamento che mise in subbuglio il Mali quattro anni fa. Non importa, proprio perché questo costituisce solo uno strato di un film che è accessibile proprio in virtù di questa vincente elaborazione, per nulla rarefatta.
Alla fine si può capire, almeno in parte, quali sentimenti e ragioni spingano Ladji a cercare di “migliorarsi”, nonostante la sua idea di miglioramento passi attraverso attività illecite e miri, per lo meno fino a un certo punto, all’accumulo di denaro. C’è di più però: nel suo rapporto con la bellissima sorella, che fa la prostituta e tale rimane anche dopo aver fatto il salto a livello economico; nell’amore negato proprio da quello stesso ambiente che lo ha reso così risoluto, cinico, ed infine perduto.
Raccontando una storia che finalmente si concentra su chi in Africa ci rimane e con quel caos si ritrova a confrontarsi, ricordandoci quell’ovvio di cui oggi come non mai sembra esserci bisogno: attenzione a ciò che desideri, perché potrebbe avverarsi ed allora ci sono delle conseguenze, non importa dove ti trovi. Ladji non sorride mai, e Wùlu in un arco tutto sommato ristretto riesce a spiegarci abbastanza bene perché.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
Wùlu (Francia/Senegal/Mali, 2016), di Daouda Coulibaly. Con Ibrahim Koma, Inna Modja, Ismaël N’Diaye, Jean-Marie Traoré, Habib Dembélé, Mariame N’Diaye, Quim Gutierrez e Olivier Rabourdin. In concorso.