Noir in Festival 2017: vincitori e considerazioni conclusive
Vince il film basco, Handia, che si aggiudica il Black Panther di questa ventisettesima edizione. Un’annata che ha peraltro proposto un livello maggiore, lato cinema, rispetto allo scorso anno, il primo del nuovo corso
Buona la seconda. Mentiremmo se dicessimo che l’edizione dello scorso anno, la prima di questo nuovo corso a doppia location fosse stata all’altezza del Noir in Festival. Fase d’assestamento, ci può stare una manifestazione se vogliamo un po’ interlocutoria, posto peraltro che, per forza di cose, è al cinema che rivolgiamo la nostra attenzione. Sì perché, come sanno coloro che sono un minimo informati, dove questo annuale appuntamento è davvero forte è sul fronte della Letteratura, proponendo ogni anno delle rassegna fitte di appuntamenti e portando almeno un grande protagonista del genere.
A tal proposito, quest’anno è toccato a Margaret Atwood, scrittrice di The Handmaid’s Tale, divenuta di recente una serie TV. Al Festival è stato portato, a ragione veduta, la trasposizione che Volker Schlöndorff ha girato nel 1990, a dire il vero modesta, quantunque qualcosa rispetto alla forza del romanzo traspaia. A questo giro però possiamo pure permetterci di glissare sui cosiddetti classici e fiondarci con sicurezza su un Concorso la cui parola d’ordine è stata «pochi ma buoni». Non vale per tutti, certo, e purtroppo uno dei vincitori, l’interessante The Nile Hilton Incident di Tarik Saleh, che si è portato a casa il miglior attore, con una motivazione peraltro accattivante da parte della Giuria, secondo la quale «Fares Fares sta al Cairo come Jack Nicholson sta a Chinatown».
Handia, come scritto in sede di recensione, è senz’altro un film importante, più di quello che si possa sospettare. Questo suo chiamare in causa più tematiche, alcune pressanti, se non altro perché sono a noi davvero vicine a dispetto del secolo e mezzo che ci divide, è argutamente integrato con una storia un po’ fantastica un po’ no, ma comunque ben raccontata e alla portata di molti. Unica assenza, ad avviso di chi scrive, illustre, è rappresentata dal quinto lungometraggio di Serge Bozon, Madame Hyde, a cui possiamo immaginare non fosse così agevole trovare un posto. Film cinefilo, espressione effettivamente non felicissima, ma alla quale tocca far ricorso per via di un linguaggio, sia a livello di scrittura che di regia, parecchio consapevole, per quanto semplice, ma al tempo stesso non altrettanto immediato per coloro ai quali i riferimenti o mancano oppure non apprezza. Roba di cui però s’ha da discutere più diffusamente a parte.
Se ne diceva un gran bene di Marlina, film malese che è passato dalla Quinzaine lo scorso maggio; chi scrive lo ritiene senz’altro competente, anche se si vede che è passato da svariati processi d’asciugatura, per così dire, tanto che questo suo minimalismo con colpi di testa improvvisi e fulminei finisce con l’essere un po’ croce e delizia, un vizio e una virtù che fungono più da limite anziché no. Forte la denuncia, specie da una parte di mondo che noi occidentali praticamente sconosciamo, ma le istanze espresse non sono, né possono esserlo, sufficienti ad elevare una revenge movie girato secondo certi codici del western. Come detto, competente, va bene così.
A margine, doveroso il commento al Premio Caligari e all’incontro conclusivo con uno dei cineasti più divisivi in circolazione, ossia Abel Ferrara. Nel primo caso, si tratta di un Premio nuovo, che la Direzione del Noir ha istituito in memoria del regista di Non essere cattivo, controverso e pressoché sconosciuto al pubblico finché per l’appunto il suo terzo ed ultimo lavoro non è approdato lo scorso anno a Venezia. Ad aggiudicarselo, Gatta Cenerentola, il film d’animazione partenopeo diretto a otto mani, di cui già parlammo sempre dal Lido appena tre mesi fa. Un riconoscimento a suo modo giusto, che per quanto ci riguarda riconosce anzitutto l’ambizione, l’esortazione implicita lanciata da questo progetto, che sprona ad osare, a partire da qualche parte e contribuire a quella tradizione che per ora evidentemente manca ma che può e deve essere costruita, con pazienza, passo dopo passo. Scriviamo poi «partenopeo» anziché italiano, non per niente: storia tratta da Basile, ambientata a Napoli, per lo più parlata in napoletano, imperfetta nel risultato ma oltremodo incoraggiante rispetto alle premesse, che non ci vedono certo eccellere in questo genere di produzioni. Il pubblico giovane del Noir l’ha capito ed ha agito di conseguenza, visto che il verdetto è il loro.
Ferrara è il solito Ferrara: spregiudicato, senza peli sulla lingua. Alla domanda circa la sua appartenenza religiosa, il nostro è stato un fiume in piena, malgrado qualche minuto prima si fosse definito buddista senza che nessuno lo avesse incalzato in questo senso. Un fiume in piena, come parte del suo cinema, che adesso, dice il diretto interessato, ambisce a farsi trasposizione di ciò che sogna la notte. Non per nulla il suo prossimo film, Siberia, trae ispirazione dal Libro Rosso di Carl Gustav Jung , con le riprese fissate per questo inverno. A tal proposito l’esplosivo Abel ha detto qualcosa che val la pena riportare: «alla fine potremmo anche non girarlo, chi se ne fotte! L’importante è l’esperienza, quello che già abbiamo fatto io, lo sceneggiatore (che è uno psichiatra di professione ndr.) e Willem (Dafoe). A me andrebbe benissimo già così». Sembra un po’ mettere le mani avanti, ma pochi come Ferrara hanno toccato con mano le difficoltà produttive, considerato il livello del regista, e sa che in qualunque momento una variante a caso tra le migliaia in gioco potrebbe impazzire e compromettere l’intero affare. Siamo fiduciosi però: il film si farà. Tra un complimento e l’altro all’interprete, poi, Ferrara ha tendenzialmente preso le distanze da quel periodo in cui girava film come King of New York, ricollegandosi implicitamente al discorso fatto in merito al suo “sconfinamento” recente nell’ambito documentaristico: «chi di noi, per dire, farà mai un colpo in banca? Perciò noi che ne sappiamo? Che senso ha mostrare cose del genere allora?».
Per chiudere in bellezza, quest’anno è tornata una chicca, quel genere di cose che il Noir getta nella mischia in mezzo alle altre ma che pure hanno tanto senso. Si tratta della versione in 4K de Il silenzio degli innocenti, e siamo stati i secondi ad assistervi in Europa; e no, purtroppo non sappiamo quando arriverà nelle sale (ché tanto di arrivare arriva). Sul film in sé mi pare si sia fuori tempo massimo per lodare certa sua precisione, l’Hannibal di Hopkins, però… c’è un però. Certi primi piani esistono per la sala ed ammetto di non aver sperimentato altrettanta inquietudine nel corso delle tre/quattro visioni che nel tempo mi sono concesso sempre sul piccolo schermo. Non insisto onde evitare di snocciolare banalità, eppure mi pare che tale componente non la si stia indagando a sufficienza in un’epoca in cui il confine tra serie TV e film va sfumando in maniera troppo impegnativa, dibattito che dunque va ascritto ad un discorso ben più ampio.
Per chiudere, mi sembra opportuna una licenza, motivata da una seppur breve menzione. Il Noir in Festival a partire dall’edizione 2017 ha istituito un ulteriore Premio, intitolando a Luca Svizzeretto. Quest’ultimo è stato un critico molto vicino al Festival, venuto meno a seguito di una tutt’altro che fulminea malattia. Chi scrive lo conosceva di vista, come si suole dire, ma questo non mi ha impedito di restare colpito nel vederlo ogni anno a Courmayeur, in condizioni evidentemente precarie, le sue, eppure sul posto non solo per fare presenzialismo, bensì attivo su più fronti, proiezioni, interviste e quant’altro, malgrado si tratti di una manifestazione sì densa ma ben meno congestionata di altre. Il Premio è andato a Enzo G. Castellari, il quale non è riuscito a restare impassibile venendo a sapere che Svizzeretto è stato un suo grande ammiratore. Un cerchio che si chiude, se vogliamo. Così come questa edizione, la ventisettesima.
PALMARES
Black Panther per la migliore interpretazione a FARES FARES nel ruolo del detective Noredin in The Nile Hilton Incident di Tarik Saleh, per essere riuscito a incarnare tutte le contraddizioni dell’antieroe: Fares Fares sta al Cairo come Jack Nicholson sta a Chinatown.
Menzione speciale della giuria va a YOU WERE NEVER REALLY HERE di Lynne Ramsay, per l’eccellente prova di regia con la quale riesce a farci entrare nello stato mentale del protagonista attraverso un uso magistrale di immagini evocative e una suggestiva atmosfera sonora.
Black Panther per il miglior film va a HANDIA di Jon Garaño e Aitor Arregi. Ispirandosi a una storia vera dei Paesi Baschi, il film affronta la questione dell’identità culturale e personale attraverso il rapporto tra due fratelli in modo coinvolgente e visivamente straordinario.
Durante la serata conclusiva il maestro del cinema Abel Ferrara viene premiato con il Noir Honorary Award per la sua sorprendente carriera. Si rende inoltre omaggio al cinema italiano con la consegna del Premio Caligari al miglior film noir italiano uscito nel 2017, assegnato da una giuria popolare di giovani studenti e di appassionati a Gatta Cenerentola di Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone.
Inoltre il Mercurius Prize, dopo aver attribuito a Yuki Sanada l’Honorary Award, assegnerà un premio speciale a MARLINA,THE MURDERER IN FOUR ACTS di Mouly Surya, distribuito in Italia da Lab80.