Noir in Festival, Karnawal, recensione del film di Juan Pablo Félix
Alfredo Castro figura nel cast di Karnawal, soddisfacente opera prima di Juan Pablo Félix, tra dramma familiare e storia di confine
Siamo al confine tra Bolivia e Argentina. Cabra (Martin Lopez Lacci) preleva un pacco da portare oltre la frontiera; chiede di che si tratta ma ovviamente gli viene risposto di farsi gli affari suoi. Il viaggio in un pullman vecchio di decenni sembra procedere liscio, senonché arriva la seconda ispezione: il giovane rischia, è vero, ma alla fine supera pure questa. Lo scambio va bene (beh, quasi) e finalmente scopriamo qualcosa di più su Karnawal ed il suo protagonista, quest’ultimo un ballerino di Malambo.
Opera prima per Juan Pablo Félix, che il film l’ha scritto e diretto. E convince questo suo attardarsi su una formula piuttosto codificata, oltre che abusata, servendosene per convogliare l’attenzione su altro. Karnawal non riporta infatti la solita manfrina relativa alla durezza in quelle aree del Sud America che sono terra di nessuno; certo, c’è anche questo, l’ovvia criminalità una traccia ineludibile allorché si sceglie di raccontare storie che hanno a che fare con chi popola certe zone.
Tuttavia Félix si propone di fare un passo ulteriore e non lasciare sullo sfondo ciò che, al contrario, è centrale. Questo leggero ancorché tangibile spostamento di visuale direi che fa tutta la differenza. Anche perché di parabola ce n’è almeno un’altra, e Karnawal in un dato punto pare essere in procinto di seguirla in pieno; mi riferisco alla passione di Cabra, il ballo, che per forza di cose in certi contesti significa anche riscatto, emancipazione, forse l’unico vero sentiero mediante il quale conseguire una sorta di libertà, malgrado non definitiva, rispetto allo status quo.
Félix, anche in questo caso, si rivela meno scontato. A fare la differenza è il rapporto tra Cabra e suo padre, interpretato da un veterano come Alfredo Castro. Pure qui, uno si aspetta l’immancabile discorso inerente all’assenza, alla figura forte, perciò negativa, del padre/padrone, ed in parte, specie alla luce del finale, non ci si discosta troppo da certi ragionamenti.
Senonché, senza voli pindarici o panegirici di sorta, attingendo tutto sommato a poche scene, Karnawal tratteggia uno scenario un pelo più elaborato, o quantomeno credibile, oltre che toccante. E non si può fare a meno di menzionare qui il peso di Lacci, il cui sguardo penetrante a tratti pare forzato, va detto, sebbene in generale riesca a trasmettere quel misto di frustrazione, dolore e disagio, opponendoli a quella fase della vicenda in cui invece il suo Cabra pare aver trovato un proprio centro, ed allora una serie di sorrisi e movenze meno ingessate gli illuminano il volto, e con esso l’intera scena.
Tutti bravi in Karnawal, pure la madre, Monica Lairana, ottima comprimaria, che ha un ruolo non facile, quello di chi fa un po’ da termometro dello stato di Cabra, finendo con l’incidere più di quanto ci s’immagini rispetto alla relazione, all’apparenza ben più centrale, tra padre e figlio. Giù giù fino a quel corroborante epilogo, suggerito, per certi versi finanche propiziato, ma con discrezione, quasi dall’inizio. Un finale in cui c’è rabbia ma non rivendicazione, c’è spettacolo ma non spettacolarizzazione. C’è insomma qualcosa di personale, forse addirittura di sincero; ecco perché quell’urlo un piccolo balzo lo fa fare pure a noi.