Noir in Festival, Les Envoûtés, recensione del film di Pascal Bonitzer
Tra fantasmi e storie d’amore impossibili, Pascal Bonitzer porta al Noir un racconto di Henry James. Leggete la nostra recensione di Les Envoûtés
Il vagone della metro su cui viaggia Coline (Sara Giraudeau) si ferma a La Fourche: pare che vi sia stato un incidente, perciò da lì si continua a piedi. Coline prosegue, recandosi presso una porta che trova però chiusa. Neanche il tempo di girarsi, ché davanti a lei appare Simon (Nicolas Duvauchelle), il suo ex, col quale, si scopre qualche istante dopo, non si vede da tre anni. Conversazione difficile, i due sono molto ingessati, lo dice pure Coline; è proprio quest’ultima a tagliare corto e chiudere questo incontro con la scusa di un appuntamento. Come già accennato, si torna a tre anni prima, genesi di quel rapporto senza sbocco tra i due. Ecco il primo film del Noir in Festival.
Les Envoûtés è ispirato a un racconto di Henry James; una storia di fantasmi o presunti tali, credo sia bene non essere troppo assertivi a riguardo. D’altronde nasce da qui il discorso: Coline si ritrova davanti alla porta di casa la sua migliore amica, Azar, in piena notte, ed è costretta a seguirla presso la lavanderia alla quale sono solite appoggiarsi. La ragazza è in stato di shock, Coline non capisce, ed allora tocca attendere che la ragione dello stato in cui si trova l’amica si manifesti. In pratica Azar ha visto il padre in quella lavanderia; il problema è che il papà vive in Spagna e non è tipo da fare sorprese. Di lì a poco una telefonata conferma che il genitore di Azar è morto proprio in quelle ore.
Altro spunto. Coline, che lavora presso una redazione parigina, viene convocata dalla sua direttrice, la quale intende assegnarle una storia per la rubrica mensile. Si tratta di una sorta di promozione per la giovane, che fin lì si è occupata solo di recensioni. Per lo più si tratta di una faccenda personale per il suo capo: Coline deve recarsi nei pressi di Bayonne, sui Pirenei, e scrivere un articolo su una conoscente della direttrice, scomparsa di recente. L’intervistato è il figlio, Simon, un pittore locale, il quale sostiene di aver visto la madre dopo la sua dipartita e che la defunta si aggira ancora per la casa.
Ambientazione spettrale, il film si svolge in larga parte entro la cornice di questa spaziosa casa di campagna, in mezzo al nulla, vista mozzafiato, non di rado circondata da una nebbia che può farsi talmente fitta da coprire l’intera visuale di questa natura meravigliosa e sterminata. Qui il meccanismo di Bonitzer s’inceppa. Lo sviluppo della relazione tra Simon e Coline, senz’altro centrale, è fumoso, incerto, tanto da rivelarsi pressoché impensabile raccapezzarvisi. Certo, fa buon gioco la condizione instabile di Coline, che arriva a questo punto della sua vita con non poche tare esistenziali e forse pure psichiche; il servirsi però di tale elemento per giustificare l’inconsistenza di questa relazione non si rivela congeniale – men che meno se ci si appella alle seppur evidenti differenze che rendono pressoché impensabile un rapporto del genere, lei parigina doc, lui burbero uomo di montagna.
Il dispositivo non scatta, resta lì, come una miccia accesa che promette una deflagrazione, la quale, ahinoi, non arriva. Di base l’incipit incuriosisce, rivelandosi accattivante proprio per via di tale incertezza relativa al punto di approdo; cosa c’entrano le apparizioni, i fantasmi, con i due protagonisti? Cosa teme Coline? E perché? Domande che per un certo periodo di tempo suppliscono alla mancanza d’intensità, un ritmo blando che pare essere funzionale al puzzle. Eppure le tessere anche alla fine non combaciano, e la sensazione è quella che in realtà il puzzle non sia mai esistito, e che tutt’al più ne sia stata suggerita l’idea.
Si cerca per tutto il film di aggrapparsi a qualcosa, sia questo il leitmotiv soprannaturale, presunto o concreto che sia; alla vicenda che riguarda da vicino Coline, ossia a come affronta ciò che la sta insidiando dal di dentro; a chi sia davvero Simon. Eppure ogni tentativo si rivela vano, proprio perché in merito a nessuna di queste tracce Bonitzer ha modo di esprimere qualcosa di soddisfacente. Manca il guizzo, quel marchio che dia sostanza ad una vicenda nell’arco della quale non si registra mai un vero affondo, la stoccata capace di destabilizzare il corso degli eventi, e, con essi, noi che vi assistiamo.
E tocca rievocare quell’incontro, dopo l’incidente in metro, di cui alle prime battute di Les Envoûtés. Alla fine si è costretti a ragion veduta a tornarci, a tal punto si scopre essere significativa quella sequenza. Un sussulto su cui però mi è parso opportuno meditare almeno un po’, dato che, malgrado la seppur leggera botta, da subito un simille segnale di vita mi è parso sospetto. Ed infatti, riflettendoci, contestualizzandolo, ci si trova disarmati dinanzi alla necessità di ammettere che la ragione per cui si tende a restare colpiti da come il finale vivifichi quei primi minuti non sia frutto di chissà quale costruzione, bensì della difficoltà che tutto ciò che ci sta di mezzo manifesta nel colmare questo gap.
Se anziché un’ora e mezza tra l’inizio e l’epilogo fossero infatti trascorsi, toh, venti minuti, è ragionevole credere che non solo non sarebbe cambiato nulla, ma che anzi, l’effetto sarebbe stato persino più potente. La dimostrazione risiede proprio in come viene gestita questa lunga parte centrale; lunga in senso certamente relativo, non assoluto, proprio perché quei pochissimi elementi che fanno da ponte vengono stirati e diluiti a tal punto da rischiare persino di spezzare quel filo rosso che lega il principio alla fine di questa parabola, ponendosi più come ingombro che altro.
Les Envoûtés (Francia, 2019) di Pascal Bonitzer. Con Sara Giraudeau, Nicolas Duvauchelle, Iliana Lolic e Nicolas Maury. Concorso.