Non c’è più Hollywood Babylonia? L’Oscar a Moonlight
La gaffe dello scambio di buste ha fatto parlare male di Hollywood, adesso il film vincitore va in cerca di gloria.
Una volta c’era Hollywood Babylonia che fece la fortuna di uno scrittore-segugio, Kenneth Anger, che andò a spulciare le cronache nere nella Capitale del cinema americano per raccontarne i segreti. Adesso con la vittoria di “Moonlight” di Barry Jenkins forse Hollywood cambierà, grazia a una storia delicata e in cerca di solidarietà, per tenerezza e sensibilità.
La sostituzione della busta è un segno del destino, forse. L’Oscar a “La La Land”, musical moderno garbato come un mazzolino di violette da 8 marzo, festa della donna, dato per errore, è rivelatrice: non è un errore, è un segno del destino compiuto da Warren Beatty, del tutto inconsapevole.
Ma il fascino della vecchia Hollywood, patria dei peccati e dell’amore romantico, dove è finito? Beh, bisogna dire che è finito da tempo e la stessa Mecca del cinema va via col vento nelle direzione dei capricci del cinema che non sa più cosa essere.
Il confronto è curioso e opportuno. “La La Land” è un omaggio al passato liliale e garbato, con pillole di pepe dolce, qualche disturbo nei sentimenti ma tanta fiducia nella musica come tranquillante. “Moonlight” si regge, se reggerà, sulla finezza che aspira a dire molto senza fare molto: sgocciolano umori di commozione, non si scopre qualcosa di nuovo, ma che importa? Le novità non esistono più o meglio il cinema non ce la fa più a tenere il passo.
“La La Land” se ne va in una serata e forse si annida nell’angolino buono del ricordo, “Moonlinght” vuole durare di più perché insegue nella sua scansione temporale allungata- storia di ragazzi che si ritrovano dieci anni dopo, dieci anni dopo, un’ eternità- una struggente risorsa; ovvero, l’amore non muore mai, si addormenta, va in letargo e poi si sveglia, urla in silenzio la sua perentorietà , la sua urgenza.
“Moonlight”, come dice il protagonista quando è ragazzo, ci fa scoprire qualcosa di molto particolare, ovvero “al chiaro di luna i ragazzi neri sembrano blu”. Parole bellissime, che chiamano simpatia, solidarietà, vanno al di là del territorio America First! di Donald Trump; diventa una morbida bandiera colorata di notte e di dolore, nel razzismo che non muore.
Ma anche “Moonlight”, come “La La Land”, se ne va lentamente verso un destino d’archivio che lo condanna a separarsi dal mondo dei conflitti atroci-non solo del razzismo- in cui tutti, tutti noi, viviamo in questa terra maledetta visitata dalla violenza e dalla morte.
Non c’è più la Hollywood Babylonia, non c’è più la Hollywood affarista, c’è una Hollywood che vive la precarietà, la nostra precarietà, e con un similmusical (volete mettere “La La Land” con “Cantando sotto la pioggia”?) e un piccolo grande film (volete mettere “Moonlight” con i potenti film antirazzisti della Hollywood, quelli di maestri colme Robert Altman e tanti altri?) va avanti a casaccio. Hollywood a tentoni nella sala buia, consolatoria, impotente di fronte allo spettacolo d’orrore della quotidianità televisiva e pubblicitaria. Atrocità, dolore, resa(?).