Cannes 2019, Oh Mercy, recensione: il dato umano della povertà in un piccolo centro francese
Festival di Cannes 2019: Desplechin parte dal contesto per ponderare il lato umano della povertà che si fa miseria
A Roubaix il 45% della popolazione vive sotto il livello di povertà. Città natale di Arnaud Desplechin, la sua Roubaix finora è stata quella di Racconto di Natale (2008) e I miei giorni più belli (2015), tutt’altre storie rispetto a quelle raccontate in Oh Mercy, oltre che tutt’altro genere. Il regista francese qui si pone sulla scia di Melville e confeziona un progetto che non si può fare a meno di apprezzare sulla carta, apprezzandone ambizioni e idee, che purtroppo si scontrano con una tenuta generale non altrettanto soddisfacente.
Roubaix non è solo ambientazione, ma la protagonista. Un cambio di prospettiva notevole, che dà la possibilità a Desplechin, basandosi sul documentario Roubaix, commissariat central (2007), di leggere la realtà di questo piccolo centro all’estremo nord della Francia mediante la lente del genere. Nella prima parte vediamo passare in rassegna una serie di crimini, coi quali il commissario Daoud (Roschdy Zem) si confronta oramai da troppo tempo.
Una serie di casi passano dalla scrivania di Daoud, che vive la propria professione come una missione, alla quale deve corrispondere sempre nel migliore dei modi, andando a fondo e concedendo il beneficio del dubbio, ché in un contesto del genere partire per la tangente è un attimo. Aleggia sempre lo spettro, più concreto che astratto, di una povertà che da quelle parti si è fatta miseria, e che, dati alla mano, spinge a commettere più crimini, il cui ventaglio è ahimè piuttosto ampio. E al commissario non resta che sottoporsi alla bassezza in cui delle persone possono cadere, con l’atteggiamento distaccato del chirurgo che opera. In tal senso si rivela decisivo il contributo di Roschdy Zem, calato meravigliosamente nella parte, abile nel trasmettere il malessere non solo suo ma di una collettività intera.
Perché Oh Mercy, e ne diamo meglio contezza a breve, è anche un film non solo e non tanto sulla definitiva perdita dell’innocenza, ma in particolar modo della consapevolezza di questo terribile passaggio. Lo dice Daoud, in una delle frasi più pertinenti: «un giorno ti giri e ti rendi conto che la vita non è libera. Che ti eri sbagliato. Penso pure che la vita dovrebbe essere stupenda com’è lo stata nell’infanzia, ma non è così». Purtroppo no, non è così. Queste parole vengono pronunciate sul finire del film, in un parchetto in cui Daoud giocava da piccolo: il posto è lo stesso, fa notare, eppure tutto è cambiato.
La serie di crimini s’interrompe allorché il commissario e i suoi colleghi e sottoposti si trovano davanti il caso di un’anziana donna trovata morta nel proprio letto, strangolata. Di lì a poco si scopre che a compiere l’insano gesto sono state due ragazze, ossia Claude (Léa Seydoux) and Marie (Sara Forestier), oppure una sola delle due, con l’altra a fungere da complice. Da qui in avanti Oh Mercy diventa qualcos’altro; dismessi i panni del thriller quasi contemplativo, dal taglio pressoché realistico, diventa un poliziesco procedurale da camera, in cui le due ragazze sono assolute protagoniste.
Una seconda metà composta da estenuanti interrogatori, volti a conoscere non tanto quale sia il movente, quantunque anche lì s’intenda inevitabilmente andare a parare, ma soprattutto chi delle due abbia spinto e l’altra, dando per scontato, come fa Daoud, che vi sia una più colpevole dell’altra. C’è un messaggio implicito tremendo, poiché a Roubaix sembra quasi che la polizia abbia smesso di chiedersi il perché di certi misfatti, in qualche modo sempre collegati al clima di povertà imperante, e che perciò si debba procedere come in nessun altro posto, a meno di non esercitare la propria professione come in parecchie di quelle aree impoverite del mondo, in cui la polizia ha smesso da tempo di percepire sé stessa come tutrice dell’ordine, quanto piuttosto gestore del caos in posizione privilegiata.
Questo argomento, sottile ma implacabile, è forse l’unico che davvero riscatta la generale piattezza di una seconda parte soverchiante; e passa quasi interamente anzitutto dall’ottima performance di Zem, ma poi anche, seppur operante ad un altro livello, da quella della Forestier, di gran lunga superiore alla Seydoux. In Marie c’è la dolcezza dal retrogusto oltremodo amaro del vuoto lasciato di Potere, tale non per assenza dello stesso ma per una gestione pessima, che esercita un controllo formale, teorico quasi, perciò molto peggio, perché tende ad acuire certi squilibri.
Lei e Claude stanno insieme nella vita, quantunque la più sincera sia Marie e non si può sorvolare sulla loro relazione, o per meglio dire sulla gerarchia all’interno di questa coppia. Oltre al movente classico, allora, ne emerge un secondo, quello amoroso, ed è un’altra botta, perché ciò che emerge è il carattere onnipervasivo delle condizioni precarie in cui si vive a Roubaix, disumane a tal punto non soltanto di spingere una persona a commettere azioni turpi pur di restare a galla, sia esso procurarsi il necessario per vivere o per potersi permettere una dose; no, in una certa qual misura la sua mostruosità sta nell’impedire alle persone di vivere dignitosamente il loro stare insieme, persino e forse soprattutto limitatamente ai rapporti più stretti.
Tema straziante, che, sebbene emerga, rimane parzialmente coperto dal modo in cui Desplechin amministra questa, a quanto si è capito fondamentale, seconda parte. Un film che con ogni probabilità va rivisto in un altro contesto, Oh Mercy, da cui si esce con l’impressione che l’esito denoti una sproporzione tra ciò che propone e come ce lo propone insomma. Qualcosa pare infatti non funzionare rispetto alla declinazione di certi codici, limite tutt’altro che innocuo, e che, anzi, finisce col depotenziare certe tracce apparentemente più che indovinate.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”5.5″ layout=”left”]
Oh Mercy (Roubaix, une lumière, Francia, 2019) di Arnaud Desplechin. Roschdy Zem, Léa Seydoux, Sara Forestier, Antoine Reinartz, Chloé Simoneau, Betty Cartoux, Jérémy Brunet, Stéphane Duquenoy, Philippe Duquesne ed Anthony Salamone. Concorso.