Oscar 2014, miglior film: 12 anni schiavo, American Hustle, Captain Phillips, Dallas Buyers Club, Gravity Lei (Her), Nebraska, Philomena, The Wolf of Wall Street
Il prossimo 2 marzo saranno annunciati i vincitori degli Oscar 2014. Scopri e vota con Cineblog tutti i candidati alla categoria Miglior film.
Concludiamo in bellezza e con la categoria più “affollata”, quella per il miglior film con 9 titoli in lizza, la nostra incursione nelle categorie degli Oscar 2014 che anche questa volta sarà corredata dal nostro consueto sondaggio.
Vi ricordiamo che potete ancora votare i sondaggi per i film candidati alla miglior scenografia, costumi, trucco, fotografia, sonoro, montaggio sonoro, colonna sonora, canzone originale, effetti speciali. sceneggiatura originale, sceneggiatura non originale, montaggio, cortometraggio d’animazione, cortometraggio live-action, attrice non protagonista, attrice protagonista, attore non protagonista, attore protagonista, documentario, miglior regia, film d’animazione e film straniero.
I titoli di questa ottantaseiesima edizione in lizza nella cinquina per il miglior film sono: 12 anni schiavo di Steve McQueen, American Hustle – L’apparenza inganna di David O. Russell, Captain Phillips – Attacco in mare aperto di Paul Greengrass, Dallas Buyers Club di Jean-Marc Vallée, Gravity di Alfonso Cuarón, Lei – Her di Spike Jonze, Nebraska di Alexander Payne, Philomena di Stephen Frears e The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese.
Riepilogo candidature dei titoli candidati al Miglior film:
12 anni schiavo (9)
American Hustle – L’apparenza inganna (10)
Captain Phillips – Attacco in mare aperto (6)
Dallas Buyers Club (6)
Gravity (10)
Lei – Her (5)
Nebraska (6)
Philomena (4)
The Wolf of Wall Street (5)
A seguire trovate il sondaggio in cui potete esprimere la vostra preferenza sulla categoria.
Vi lasciamo alle schede di approfondimento sui film candidati con curiosità, trame, trailer, video e link alle nostre recensioni.
12 anni schiavo
– Il biopic di Steve McQueen è uno struggente affresco di vita vissuta e libertà privata, l’Oscar al miglior film sarebbe sacrosanto per un’opera che va oltre l’impronta autorale di McQueen giustamente sacrificata in favore di un racconto emotivamente trasversale, con un protagonista i cui occhi trasmettono paura e coraggio ad ogni primo piano. Abbiamo sentito amenità di ogni tipo sulla performance di Chiwetel Ejiofor, tra cui una presunta mancanza di empatia, stendiamo un velo pietoso su tali affermazioni ricordando che il suo ruolo è in netta contrapposizione con quello dell’intensa e disperata Patsey di Lupita Nyong’o, la scena in cui Solomon chiede rabbioso ad una donna di non piangere per i figli perduti svela la sua determinazione a non crollare, una determinazione che lo ha portato a sopravvivere alla sua prigionia. 12 anni schiavo è un’opera che va vissuta oltre la performance filmica; razzismo, discriminazione, schiavitù e diritti umani violati sono tematiche tristemente attuali e il film di McQueen è li a ricordarci quanto preziosa sia la libertà di cui godiamo e che troppo spesso diamo per scontata.
LA TRAMA
Tratto dall’incredibile storia vera di un uomo e della sua battaglia per la sopravvivenza e la libertà. Stati Uniti. Negli anni che hanno preceduto la guerra civile americana, Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor), un nero nato libero nel nord dello stato di New York, viene rapito e venduto come schiavo. Misurandosi tutti i giorni con la più feroce crudeltà (impersonificata dal perfido mercante di schiavi interpretato da Michael Fassbender) ma anche con gesti di inaspettata gentilezza, Solomon si sforza di sopravvivere senza perdere la sua dignità. Nel dodicesimo anno della sua odissea, l’incontro con un abolizionista canadese (Brad Pitt) cambierà per sempre la sua vita.
“Essendo vissuto da uomo libero per oltre trent’anni, durante i quali ho goduto del bene prezioso della libertà in uno stato libero, ed essendo poi stato rapito e venduto come schiavo – condizione in cui sono rimasto fino alla mia liberazione avvenuta nel gennaio del 1853, dopo dodici anni di schiavitù – qualcuno ha ritenuto che la storia della mia vita e delle mie tribolazioni non sarebbe stata del tutto priva di interesse per il pubblico”. [Solomon Northup]
NOTE DI PRODUZIONE
McQueen ha scelto di affidare l’adattamento del libro al romanziere e sceneggiatore John Ridley. Ridley si è subito innamorato di quella che fin dall’inizio non gli è sembrata solo la cronaca di un’esperienza drammatica, ma una vera e propria odissea: un viaggio lungo, tormentato e pieno di colpi di scena, al centro del quale c’è la perseveranza di un uomo determinato a tornare dai suoi cari.
“Mi è sempre sembrata l’odissea di un uomo che cerca disperatamente di ritornare a casa. Oggi, chiunque potrebbe salire su un aereo e andare da New York alla Louisiana, e ritorno, in un battibaleno. Ma se pensiamo a quel periodo, era una distanza fisica ed emotiva incolmabile per un uomo che oltre a tornare a casa voleva anche riprendersi i suoi diritti e la sua dignità. Questa è la storia di un viaggio infinito, nel corso del quale Solomon Northup arriva a capire quello che molti di noi danno per scontato: il privilegio di essere un americano libero”, spiega Ridley.
Nonostante la vicenda sia ambientata in un altro secolo, Ridley la ritiene estremamente attuale. “Le grandi storie hanno sempre una loro immediatezza”, dice. “Allora come ora, Solomon è prima di tutto un personaggio straordinario”. Durante la preparazione del film, Ridley e McQueen hanno fatto un grosso lavoro di ricerca. Hanno studiato l’architettura di un sistema schiavistico che in qualche modo è stato un precursore dell’economia globale e che nel corso degli anni ha sviluppato una sua imponente e brutale infrastruttura. L’invenzione della sgranatrice ha reso possibile la produzione di massa del cotone, che ha fatto della schiavitù il fulcro dell’economia degli stati del sud.
Attraverso i documenti dell’epoca, regista e sceneggiatore hanno potuto quantificare l’enorme contributo dato dalla manodopera nera alla ricchezza del paese; e hanno scoperto per salvaguardare la pratica schiavista, il sistema sia diventato sempre più violento e repressivo, separando e distruggendo intere famiglie. Una pratica così abietta e immorale che ha diviso il paese per poi radicarsi nella sua psiche.
“Durante il lavoro di ricerca abbiamo scoperto moltissime cose sul sistema schiavista. “Quando oggi pensiamo allo schiavismo, lo identifichiamo con una sola cosa: i negri che lavoravano nei campi di cotone. Ma un sistema fondato sulla distruzione della volontà e la disumanizzazione doveva per forza di cose diventare sempre più complesso. C’era bisogno di storie da raccontare ai bianchi sul perché i neri dovevano essere schiavi, perché erano inferiori e perché nessuno doveva preoccuparsi dei loro diritti. Dopodiché è cresciuto a un ritmo esponenziale, anno dopo anno”.
Se da una parte non poteva sorvolare sulle atroci sofferenze fisiche e psicologiche di Northup, Ridley voleva che il tema conduttore del film fosse la vittoria della speranza sulle avversità. “La cosa più facile, di fronte a una storia come questa, sarebbe voltarci dall’altra parte e fare finta di non vedere”, confessa lo sceneggiatore. “Invece, è importante capire da dove veniamo e quanta strada abbiamo fatto, come paese. È l’unica cosa che può darci speranza. Il film ci incoraggia a non arrenderci, a credere sempre di potercela fare. È questo il messaggio di Solomon a ognuno di noi e a tutto il paese”. Ridley spera che il film impedisca alla gente di dimenticare un passato che invece andrebbe integrato nella narrazione americana presente e futura. “È assurdo che questo libro non sia una lettura obbligatoria a scuola. Steve ed io ci riteniamo persone abbastanza colte, eppure lo abbiamo scoperto per caso. Spero che dopo questo film non sarà più così per nessuno”.
Il progetto è decollato quando sono entrati in campo Brad Pitt e la sua casa di produzione, Plan B. “Credo proprio che senza Brad Pitt il film non si sarebbe mai fatto”, afferma McQueen. “Come produttore, ha dato un contributo determinante perché lavora con dedizione ed è sempre presente e collaborativo. Come attore, anche se in un piccolo ruolo, in pochi minuti di film è capace di fare più di chiunque altro. Sono molto grato a lui, a Dede Gardner e a Plan B”.
American Hustle – L’apparenza inganna
– Il regista David O. Russell dopo due tentativi andati a vuoto con “The Fighter” e “Il lato positivo” prova ancora a conquistare la statuetta per il miglior film, con un’opera corale che fruisce di uno srepitoso parterre di attori e una sceneggiatura capace di dare spazio ed esaltare ogni singola performance, tanto che quattro degli attori del cast si sono piazzati in pole position nelle quattro categorie dedicate alla performance attoriali.
LA TRAMA
Ambientato nel provocante mondo di uno degli scandali più incredibili degli anni ’70, American Hustle – l’apparenza inganna è la storia del brillante truffatore Irving Rosenfeld (Christian Bale), che assieme al seducente e scaltro complice Sydney Prosser (Amy Adams) è costretto a lavorare per il feroce agente FBI Richie DiMaso (Bradley Cooper). DiMaso li introduce in un mondo di personaggi mafiosi del Jersey, un mondo pericoloso ma affascinante. Jeremy Renner è Carmine Polito, l’appassionato, irascibile politico del New Jersey, preso tra le maglie dei geni della truffa e i Federali. L’imprevedibile moglie di Irving, Rosalyn, (Jennifer Lawrence) potrebbe essere la chiave di volta per far crollare tutto questo mondo. Proprio come nei due film precedenti di David O. Russell, American Hustle – l’apparenza inganna sfida il genere per raccontare una storia d’amore, di riscoperta di se stessi, e di sopravvivenza.
LO SCANDALO ABSCAM
Storicamente, lo scandalo Abscam è iniziato come operazione sotto copertura condotta dall’FBI. Allarmati dai reati commessi dai colletti bianchi – e dalla corruzione politica – gli agenti FBI John Good e Anthony Amoroso hanno collaborato con il truffatore Mel Weinberg per dare vita a un’operazione sotto copertura. Weinberg e l’FBI hanno creato una compagnia telefonica, di proprietà di un falso sceicco arabo, allo scopo di offrire tangenti in cambio di favori politici. “Non ci è voluto molto per convincerci delle capacità di Mel”, dice Good. “Si è impegnato a fondo. Non lo chiamerei propriamente un informatore; è stato molto di più di un semplice informatore. Ha partecipato fattivamente all’operazione. Era un truffatore sì, ma con un cuore buono, e questa era una forma di integrità; si è impegnato in un’operazione legale ed è stato capace di combattere al fianco della giustizia.”
Weinberg è diventato il testimone principale dei casi dell’FBI contro sei membri della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti e un senatore americano, condannati per diversi carichi penali. Altri rappresentanti governativi furono dichiarati colpevoli, e tra questi anche il sindaco di Camden in New Jersey. “Pensavo che il sindaco fosse una persona onesta”, dice Amoroso. “Cioè… Il suo interesse principale era aiutare se stesso, ma anche la città di Camden in New Jersey. Una volta, ad Atlantic City, c’era un ubriaco che camminava vicino al mare, e a un certo punto si è avvicinato a lui. Voglio dire, non è che fosse un suo elettore, ma il sindaco si è fermato comunque a parlare con lui una decina di minuti. Era fatto così. In questo lavoro, ci sono persone che non vedi l’ora di sbattere dentro, e altri che ti dispiace facciano una brutta fine. Ecco, il sindaco era uno di quelli che ti dispiace veder fare una brutta fine, ma in fondo è il mio lavoro e non posso farci niente.”
Captain Phillips – Attacco in mare aperto
– La regia dinamica e all’insegna del realismo di Paul Greengrass al servizio di una storia vera e di due performance attoriali di altissimo livello, quelle di Tom Hanks e Barkhad Abdi, intense e credibili con Hanks che schiva con intelligenza potenziali manierismi e la spontaneità di Abdi capace di rubare a più riprese la scena al collega.
LA TRAMA
Captain Phillips – Attacco in mare aperto rappresenta l’analisi a più livelli, da parte del regista Paul Greengrass, del sequestro nel 2009 della nave porta container U.S. A., Maersk Alabama, da parte di una banda di pirati Somali. Il film —raccontato attraverso l’obiettivo caratteristico di Greengrass— è allo stesso tempo un thriller al cardiopalma ed un ritratto della miriade di effetti collaterali della globalizzazione. Il film è incentrato sulla relazione tra il comandante della Alabama, il Capitano Richard Phillips (il due volte premio Oscar® ,Tom Hanks), e la sua controparte Somala, Muse (Barkhad Abdi). Ambientato su una rotta di collisione incontrovertibile, al largo della costa Somala, entrambi si troveranno a pagare il prezzo alle potenze economiche che sfuggono al loro controllo. Il film è diretto dal candidato all’ Oscar® Paul Greengrass da una sceneggiatura non originale di Billy Ray e tratta dal libro “A Captain’s Duty: Somali Pirates, Navy SEALs, and Dangerous Days at Sea”, di Richard Phillips e Stephan Talty. Il film è prodotto da Scott Rudin, Dana Brunetti e Michael De Luca.
NOTE DI PRODUZIONE
In Captain Phillips, il regista Paul Greengrass traccia la storia carica di emotività, di alcuni pirati Somali che prendono in ostaggio il capitano di una nave Americana, mettendo allo stesso tempo in risalto, il divario economico che è il volano delle azioni descritte. La storia ha inizio in Vermont, dove il Capitano Phillips lascai la sua famiglia per imbarcarsi su un cargo (in gran parte aiuti umanitari di cibo) diretto all’altra parte del mondo—mentre nello stesso momento, in Somalia, l’ex pescatore Muse, mira a prendere possesso di una delle molte navi di gran valore che passano al largo della costa ogni giorno. Al centro del confronto tra Phillips ed i disperati pirati Somali che lo prendono in ostaggio, Greengrass rivela la spaccatura esistente tra coloro che sono parte del flusso lucrativo del commercio internazionale e quelli che ne rimangono ai margini.
“Negli ultimi dieci anni abbiamo visto molti bei film che raccontavano dei problemi di sicurezza nazionale e di terrorismo, ma io volevo fare un film che raccontasse di un conflitto più ampio nel nostro mondo— il conflitto tra chi possiede tutto e chi non ha nulla”, dice Greengrass. “Il confronto tra Phillips, che è parte del flusso dell’economia globale, ed i pirati, che invece non ne fanno parte, mi è sembrato un argomento nuovo e ancora tutto da sviscerare. La situazione tra Phillips e Muse, è certamente un emozionante assedio in alto mare, ma uno di quelli che parla alle forze più grandi che guidano il nostro mondo oggi”. Greengrass continua, “Ho sempre pensato che una storia debba essere raccontata in maniera avvincente ed emozionante, ma che faccia anche pensare”.
Come ex documentarista, Greengrass ha da sempre raccontato storie che scavano oltre la superficie di eventi contemporanei — da Bloody Sunday, sul massacro dell’Esercito Britannico nell’Irlanda del Nord, a United 93 , sul dirottamento dell’ 11/9 sventato dai passeggeri, fino a Green Zone, sulla guerra in Iraq. Allo stesso tempo, Greengrass è anche diventato famoso per essere il regista che ha cambiato le regole dei thriller adrenalici, con il realismo originale di — The Bourne Ultimatum e The Bourne Supremacy.
Questi due punti di forza — l’istinto investigativo di Greengrass e la sua maestria nel racconto di thriller— si uniscono in Captain Phillips. Motivo principale dell’approccio di Greengrass a Phillips, è stata la sua decisione di non voler raccontare la stessa storia trionfalistica del salvataggio di un ostaggio, già visto sui titoli dei giornali. “Quando Paul ha abbracciato il progetto, era chiaro a tutti che stava per raccontare gli eventi accaduti nel sequestro dell’Alabama, in maniera meno romanzata rispetto a quanto riportato dalla stampa”, dice Michael De Luca, che ha prodotto il film assieme a Scott Rudin e Dana Brunetti, e — con Brunetti — ha aiutato la Columbia Pictures nell’acquisizione dei diritti della storia di Phillips. “Paul ha messo subito in chiaro che voleva raccontare la storia in maniera il più possibile autentica”, aggiunge. Mentre Greengrass spiega: “Io voglio veracità. Voglio riportare la realtà e l’immediatezza dell’evento, così come è accaduto. E questo per noi ha significato l’immersione nelle ricerche durante la fase di pre produzione. Ho sempre creduto che, dal concepimento della storia alla fase delle riprese, fino alla post produzione, uno si deve guadagnare il diritto ad attirare l’attenzione da parte del pubblico e non deve mai darla per scontata”
Dallas Buyers Club
– Matthew McCounaghey e Jared Leto si calano alla perfezione nei rispettivi ruoli in una storia che racconta di malattia e morte senza mezzi termini. Il film di Jean-Marc Vallée è capace di una schiettezza e di una durezza che va oltre i personaggi e scava in profondità mettendoci in guardia, narrandoci di una malattia che non risparmia nessuno, della paura di morire, ma anche di una rabbiosa e disperante voglia di vivere.
LA TRAMA
In un periodo incerto nella storia americana, un uomo con i suoi difetti lotta per la sopravvivenza. Ispirato a fatti realmente accaduti, Dallas Buyers Club racconta la storia sulla tenacia di Ron Woodroof attraverso lo sguardo del regista Jean-Marc Vallée, su una sceneggiatura originale di Craig Borten e Melisa Wallack. Il vincitore dello Spirit Award, Matthew McConaughey veste i panni di un personaggio reale, che per il proprio interesse è spinto a qualcosa di molto più elevato. Figlio del Texas, Ron Woodroof è un elettricista e un cowboy da rodeo. Nel 1985, vive un’esistenza secondo le proprie regole, indipendente. Ma come un fulmine a ciel sereno, scopre di essere sieropositivo con una prognosi che lo condanna a 30 giorni di vita. Ron rifiuta di accettare questa sentenza di morte e, di fatto, reagisce. Ricerche rapide sulla sua grave condizione lo portano a scoprire una serie di medicinali e terapie non ancora approvate dal ministero. Decide così di oltrepassare il confine. In Messico impara le procedure per alcuni trattamenti alternativi che comincia a esportare di contrabbando, andando contro la comunità scientifica e i medici specializzati, compresa la sua terapista, la dottoressa Eve Saks (la vincitrice dello Screen Actors Guild Award, Jennifer Garner) preoccupata del suo caso. Completamente al di fuori della cerchia omosessuale, Ron trova un improbabile alleato in un paziente malato di AIDS, Rayon (l’attore premiato con il Gotham Independent Film Award, Jared Leto), giovane transessuale che condivide con Ron un attaccamento spassionato alla vita. Ma anche uno spirito imprenditoriale : per evitare sanzioni governative dovute alla vendita non autorizzata di farmaci e articoli sanitari, fondano un “buyers club” (un ufficio acquisti), per cui i sieropositivi pagano quote mensili adeguate per avere accesso alle forniture di nuova acquisizione. Nel cuore del Texas, l’iniziativa del collettivo clandestino ideata da Ron prende il via, presto aumentano i clienti e i sostenitori. Ron si batte per la dignità, l’informazione e l’accettazione. Negli anni successivi alla diagnosi, il vessato Cavaliere Solitario vive a pieno la vita come non mai.
LA STORIA DI RON WOODROOF
Ron Woodroof morì a seguito delle complicazioni dovute all’AIDS nel settembre 1992. Erano passati sette anni da quando lo avevano dato per spacciato, con soli 30 giorni ancora da vivere. Un mese prima che morisse, lo sceneggiatore Craig Borten guidò da Los Angeles fino a Dallas, nello stato del Texas perché voleva andare a conoscerlo e raccontare poi la sua storia in un film. Ci sono voluti 20 anni per realizzare, infine, Dallas Buyers Club. Borten aveva appreso la storia del Dallas Buyers Club da un amico e ne era rimasto affascinato. Ron scoprì di aver contratto l’HIV nel 1985, quando in America la crescente consapevolezza dell’AIDS era all’apice. Da oltre quattro anni la sindrome stava falcidiando la comunità gay, e quell’elettricista macho e donnaiolo era una delle milioni di persone che consideravano l’AIDS la “malattia dei gay”.
A 35 anni, l’orgoglioso figlio del Texas si ritrovò allontanato ed emarginato da amici e colleghi. Stava morendo ed era praticamente al verde, ma determinato a sopravvivere. E contro ogni previsione, non solo continuò a vivere, ma ebbe la forza per aiutare e salvare altre vite. Nei sette anni che seguirono alla diagnosi, Ron si era trasformato in un’enciclopedia vivente di trattamenti antivirali, sperimentazioni farmacologiche, brevetti, sentenze giuridiche e norme della FDA. Lottava per i diritti dei pazienti, compreso il diritto di accesso a farmaci e trattamenti alternativi. Dopo tante lettere rimaste senza risposta, Borten telefonò agli uffici del Dallas Buyers Club. Ron, proprio lui, rispose e si rese disponibile a incontrarlo il giorno dopo. Borten sentiva che la storia di un cowboy omofobo che incredibilmente si ritrova all’improvviso in prima linea contro la pandemia dell’AIDS fosse unica e d’impatto. «Più andavo avanti e più mi sembrava convincente», riflette lo sceneggiatore. «Quello che più mi interessava era quest’uomo che inizia con un atteggiamento estremamente intollerante e finisce per trovarsi con i suoi più cari amici che gli voltano le spalle, poi si emancipa e impara cos’è l’amicizia vera, cosa significa.
Quelli che lo accettano e lo sostengono sono i pazienti sieropositivi e i malati di AIDS, e sono quasi tutti gay». «Ecco una persona condannata a morte che rovescia la sua sentenza e fa delle scoperte. In questo percorso, cambia dentro di sé e aiuta altre persone. Chiunque smentisca ogni aspettativa attira la mia attenzione, ed è quello che ha fatto Ron. È diventato una persona migliore per questo». Borten ha trascorso diversi giorni con Ron al Dallas Buyers Club, riportando a casa oltre 20 ore di interviste su un registratore vocale Dictaphone. Dopo che Ron è venuto a mancare, il racconto della sua storia – sull’interesse e sulla difesa personali che finiscono per portare beneficio a tanti altri – ha intrapreso il suo viaggio inaspettato. Borten ha continuato a fare ricerche ulteriori e a scrivere.
Quindi, una volta sicuro di aver reso a dovere la storia di Ron, ha fatto leggere il copione a una sua cara amica, la produttrice Robbie Brenner. «Me ne sono innamorata subito», dice la Brenner. «Che viaggio incredibile quello di Ron! La storia è profondamente umana, a tutti i livelli. Ron ha trovato la volontà di mettersi in discussione, di lottare contro le avversità, la tragedia, e la motivazione sta anche nella terra dove era nato e in come era cresciuto, insomma nella persona che era. Contrarre l’AIDS lo ha reso capace di vedere la sua vita da una diversa prospettiva. Ha cambiato la sua esistenza e quella delle persone che ha aiutato. Ma non era sua intenzione, stava solo tentando di sopravvivere». «Lo script mi ha fatto pensare a uno di quei film a sfondo sociale che io amo. Così ho detto a Craig che volevo produrlo».
Gravity
– Una bravissima Sandra Bullock in un film capace di metterne in risalto intensità e un ormai affinatissimo registro drammatico, ma quello che più stupisce è la cornice allestita da Alfonso Cuaron per questa intensa performance amplificata e supportata da un comparto tecnico ineccepibile. Con un mix pionieristico di fotografia virtuale e live-action Gravity segna una tappa fondamentale nella creazioni di ambientazioni virtuali e crediamo che le categorie Miglior regia, fotografia ed effetti speciali per il film di Cuaron siano sacrosante.
LA TRAMA
Sandra Bullock è la brillante dottoressa Ryan Stone, alla sua prima missione a bordo dello shuttle, con L’astronauta veterano Matt Kovalsky (Clooney). Ma quella che sembrava una normale passeggiata nello spazio si trasforma in una catastrofe e lo shuttle viene distrutto, lasciando Stone e Kowalsky completamente soli — collegati solo fra loro e fluttuanti nell’oscurità.
Il silenzio assordante in cui sono immersi significa che hanno perso ogni contatto con la Terra…e ogni speranza di salvezza. Quando la paura si trasforma in panico, ogni sorsata d’aria riduce il poco ossigeno rimasto.
Ma forse l’unico modo per tornare a casa è addentrarsi in quel terribile spazio infinito.
IL REGISTA ALFONSO CUARON
Alfonso Cuarón (Regista/Sceneggiatore/Produttore/Montatore) candidato all’Oscar® per tre volte, ha scritto e diretto un’ampia gamma di film famosi. Ha debuttato alla regia nel 1991 con il film “Uno Per Tutte”, una commedia noir con Daniel
Giménez Cacho e Claudia Ramírez, che è diventato il più grande incasso al box office messicano del 1992 ed ha consentito a Cuarón di vincere un premio Ariel Award come cosceneggiatore. Colpito dal primo lavoro di Cuarón, Sydney Pollack lo ha ingaggiato per dirigere “Murder, Obliquely”, un episodio della serie neo-noir,“Fallen Angels” per la Showtime. L’episodio, con interpreti Laura Dern ed Alan Rickman, ha portato Cuarón alla conquista del premio Cable ACE Award del 1993, come Migliore Regia. Cuarón ha debuttato al cinema in America con il film del 1995, celebrato dalla critica, adattamento dell’amato libro per bambini,“La Piccola Principessa”. Il film ottenne la candidature agli Oscar® come Migliore Fotografia e Migliore Art Direction, e vinse il premio del Los Angeles Film Critics, New Generation Award. A questo fece seguito, nel 1998, “Paradiso Perduto” un adattamento contemporaneo del romanzo classico di Charles Dickens, con Gwyneth Paltrow, Robert De Niro, Anne Bancroft ed Ethan Hawke.
Cuarón fece quindi ritorno in Messico per dirigere la divertente, provocatoria e controversa commedia on the road in lingua spagnola, “Y Tu Mamá También” per la quale ricevette la candidatura all’Oscar® come Migliore Sceneggiatura Originale (scritta assieme a suo fratello Carlos Cuarón) ed una nomina ai BAFTA come Migliore Film Straniero e Migliore Sceneggiatura Originale. Nel 2003, ha diretto “Harry Potter e il prigioniero Azkaban”, il terzo film della più famosa serie di film del cinema di tutti i tempi, tratta dai libri bestseller dell’autrice J.K. Rowling. Il suo progetto seguente fu, “I Figli degli Uomini”, scritto insieme a Timothy Sexton, si rivelò come uno dei più discussi film del 2006, e fu celebrato dalla critica e dagli amanti del cinem per le sue tecniche di ripresa innovative, comprese numerose carrellate di alto impatto. Il film valse due candidature all’Oscar® per Cuarón, come Migliore Sceneggiatura non Originale e Migliore Montaggio. Il film ricevette anche altri numerosi riconoscimenti e nomine, inclusa una terza candidatura all’Oscar® come Migliore Fotografia e due premi BAFTA, per Migliore Fotografia e Migliore Scenografia.
Dopo aver prodotto il film dell’amico Guillermo del Toro, successo globale di critica del 2006 “Il Labirinto del Fauno”, Cuarón ha dato vita alla compagnia di produzione indipendente Cha Cha Cha con i suoi amici, il cineasta messicano Guillermo del Toro ed il regista Alejandro Gonzáles Iñárritu. La compagnia ha prodotto il film di Iñárritu, candidato all’ Oscar® ed ai BAFTA del 2010, “Biutiful”.
Lei (Her)
– Una storia d’amore ai tempi dell’alta tecnologia. Il regista Spike Jonze ci regala una commedia romantica raffinatissima e inusuale nel suo evolversi oltre i clichè “romance” e volutamente intimistica nel narrare il bisogno di interagire che travalica l’umana concezione amorosa, in un mondo interconnesso a livello globale, ma sconnesso a livello emotivo e afflitto da un’affollata solitudine. Il film di Jonze potrebbe accapparrarsi senza troppe difficoltà i premi per la sceneggiatura originale e la colonna sonora, ma la categoria miglior film resta un grosso punto interrogativo.
LA TRAMA
Ambientato a Los Angeles, in un futuro non troppo lontano, Lei (Her) racconta la storia di Theodore (Joaquin Phoenix), un uomo sensibile e complesso che si guadagna da vivere scrivendo lettere personali e toccanti per altre persone. Distrutto dalla fine di una lunga relazione, Theodore resta affascinato da un nuovo e sofisticato sistema operativo che promette di essere uno strumento unico, intuitivo e ad altissime prestazioni. Incontra così “Samantha”, una voce femminile sintetica (Scarlett Johansson nella versione originale e Micaela Ramazzotti nella versione italiana) vivace, empatica, sensibile e sorprendentemente spiritosa. Via via che i bisogni e i desideri di lei crescono insieme a quelli di lui, la loro amicizia si fa sempre più profonda finché non si trasforma in vero e proprio amore.
NOTE DI PRODUZIONE
Nel film Lei (Her) , lo sceneggiatore e regista Spike Jonze racconta in chiave personalissima e non convenzionale il rapporto tra un uomo e una donna, indagando la natura stessa dell’amore. “Una delle cose più diffcili in un rapporto di coppia è essere onesti fino in fondo e permettere alla persona che ami di fare altrettanto”, dichiara Jonze. “Ognuno di noi cresce e cambia continuamente. E’ possibile lasciare l’altro libero di essere se stesso, giorno dopo giorno, anno dopo anno? E se l’altro cambia, l’ameremo lo stesso?”. Ma soprattutto, se saremo noi a cambiare, l’altro continuerà ad amarci? Ecco alcuni degli interrogativi che emergono quando Theodore incontra Samantha… la voce sintetica di un sistema operativo di ultima generazione.
“La pubblicità lo presenta come un software intuitivo che ti ascolta, ti capisce e impara a conoscerti”, spiega Jonze. Sofisticatissimo esempio di intelligenza artificiale, Samantha è affettuosa e empatica, e ben presto rivela anche una certa indipendenza di giudizio, uno spiccato senso dell’umorismo, la capacità di andare al nocciolo dei problemi e una gamma sempre più complessa di emozioni. Dal momento in cui inizia a esistere, Samantha progredisce rapidamente, di pari passo col suo rapporto con Theodore. Da sua assistente, si trasformerà gradualmente in amica fidata, confidente e – alla fine – in qualcosa di molto più profondo.
Questo è il primo lungometraggio scritto interamente da Jonze. E non stupisce che, per indagare la natura dell’amore, abbia scelto il rapporto tra un uomo e la coscienza disincarnata di un software. Jonze è sempre stato un artista originale e innovativo in tutti i campi: dai video musicali ai documentari, fino ai successi creativi come i film ESSERE JOHN MALKOVICH, IL LADRO DI ORCHIDEE e NEL PAESE DELLE CREATURE SELVAGGE. Il protagonista del film, Joaquin Phoenix, è rimasto subito affascinato dal soggetto. Benché all’epoca fosse impegnato nelle riprese del film THE MASTER, per cui è stato candidato all’Oscar, l’attore ha incontrato spesso Jonze per parlare con lui della sceneggiatura e dei personaggi. “E’ stato fantastico seguire da vicino la sviluppo del progetto”, ricorda Phoenix. “Mi fido del suo istinto”, spiega Jonze, che ha contattato l’attore una settimana dopo aver finito la sceneggiatura. “Se qualcosa non lo convince, significa che devo tornarci su. Dopo cinque minuti che parlavo con lui ho pensato: ‘Adoro quest’uomo. Voglio lui nel mio film’. Joaquin ha saputo dare al suo ruolo la dimensione affettiva giusta. In Theodore c’è molta tristezza, ma ci sono anche allegria e giocosità: un contrasto molto tenero e interessante, che Joaquin ha saputo rendere in modo strepitoso”.
Progettata per apprendere ed evolversi, Samantha accoglie con entusiasmo ogni nuova esperienza, e non è mai stanca. Questo dà la spinta giusta a Theodore per trovare in sé le risorse per uscire dalla depressione. “Nonostante abbia accesso a tutte le informazioni del mondo, Samantha elabora in tempo reale, momento per momento, pensieri e reazioni”, spiega Scarlett Johansson. “Non ha opinioni predeterminate. Sa essere fresca e immediata, oltre che saggia e profonda”. Via via che cresce la consapevolezza di Samantha, cresce anche quella di Theodore. Lui la porta a fare delle gite in città, in montagna e al mare, e lei lo aiuta a guardare con occhi diversi le tante difficoltà della vita quotidiana. A un certo punto, Theodore comincia a vedere anche se stesso in modo diverso. E’ questo che,secondo il regista, segna l’inizio di ogni storia d’amore: “Ognuno indica all’altro modi diversi di guardare le cose”, osserva Jonze. “Innamorarsi e essere innamorati dovrebbe essere questo: stare con qualcuno che ci stimola e ci entusiasma, che ci aiuta a capire meglio noi stessi, a vederci con occhi diversi”.
Lei – Her è un film complesso e sofisticato che racconta una storia universale in cui tutti possono riconoscersi, che alterna momenti drammatici a momenti romantici, di riflessione e di pura comicità. I due interpreti e il regista hanno accettato la sfida di dare al personaggio di Samantha – che non appare mai sullo schermo – la pienezza e la “presenza” che merita. “Samantha è un personaggio dalle mille sfaccettature”, osserva Jonze. “Dev’essere candida e insieme spiritosa, intelligente e consapevole, ma anche sexy e affascinante. E deve evolversi in modo credibile come essere umano. Un ruolo impegnativo”. “E’ stato un processo molto naturale”, ricorda la Johansson. “A volte io e Joaquin giravamo insieme, a volte lavoravo solo con Spike, ma c’era sempre un certo grado di spontaneità nella scoperta delle sfumature del personaggio e del suo rapporto con Theodore”.“Tutti gli addetti alla produzione si sono impegnati per creare un’atmosfera intima e coinvolgente durante le riprese”, aggiunge Phoenix. Sul set non c’è mai stato il solito caos rumoroso che può distrarre gli attori. “La lavorazione di questo film è stata unica in tutti i sensi: dalla stesura della sceneggiatura alle riprese con Scarlett, all’atmosfera sul set. Anche per questo è stata un’esperienza indimenticabile”. Era da qualche anno che Jonze aveva in mente l’idea di Lei.
“Tutto è nato da un articolo che ho letto su Internet una decina d’anni fa”, ricorda il regista. “Parlava di un servizio di messaggistica istantanea che consentiva di chattare con un’intelligenza artificiale. Mi sono collegato e ho scritto ‘Ciao’, e il software mi ha risposto ‘Ciao’. E io: ‘Come stai?’. ‘Bene. E tu come stai?’. Abbiamo avuto una breve conversazione, e all’inizio ho provato un brivido: ‘Wow! Sto parlando con questa cosa…mi sente!’. Ma l’illusione è svanita rapidamente quando mi sono reso conto che la voce si limitava semplicemente a ripetere quello che aveva sentito un momento prima, non era intelligente: era solo un programma ben fatto. Quel brivido iniziale è stato eccitante, però. Così, mi è venuta l’idea di un uomo che incontra un’entità simile dotata di una coscienza, e ho provato a immaginare una storia d’amore tra loro”.
Una volta finita la sceneggiatura, il film ha preso vita. Oltre a scriverlo e a dirigerlo, Jonze lo ha anche prodotto insieme al suo vecchio collaboratore Vincent Landay e alla produttrice candidata all’Oscar Megan Ellison. “Megan è incredibile”, dichiara Jonze. “Ha le idee chiare e sta costruendo una casa di produzione con un’impronta personale e originale. Sta facendo qualcosa di veramente speciale”.
Nebraska
– L’impronta autorale di Alexander Payne amplificata da un coraggioso e splendido bianco e nero e da un Bruce Dern “gigantesco”. Il film di Payne è l’outsider della categoria insieme a Lei – Her di Spik Jonze.
LA TRAMA
Un padre e un figlio portano la commedia americana on the road sulle strade di un evanescente Midwest e sulle tracce di un’improbabile fortuna–alla ricerca anche di una comprensione reciproca che un tempo era sembrata impossibile. Questa è la storia della famiglia Grant di Hawthorne, Nebraska. Trapiantato a Billings, nel Montana, il testardo e taciturno Woody (Bruce Dern nel ruolo che gli ha fatto ottenere il premio come miglior attore a Cannes) ha ormai fatto il suo tempo–che per la verità non è stato un granché–e forse si sente un po’ inutile, ma è convinto di aver ricevuto un grosso colpo di fortuna: una lettera che gli comunica di essere il fortunato vincitore del jackpot di una lotteria pari a un milione di dollari.
Per reclamare i suoi soldi, Woody insiste di doversi recare immediatamente presso gli uffici della società che gestisce la lotteria a Lincoln, in Nebraska. Un viaggio di 1.200 chilometri che pare molto complicato da affrontare, visto che lui riesce appena a trascinarsi per qualche isolato, e comunque fermandosi spesso a bere qualcosa. Preoccupato per lo stato mentale del padre, tocca a David (Will Forte), il figlio riluttante e perplesso di Woody, accompagnarlo in quel viaggio all’apparenza ridicolo e senza scopo. Eppure il loro strano viaggio finisce col trasformarsi in una specie di moderna odissea familiare.
Quando Woody e David faranno una sosta nella loro cittadina di origine, Hawthorne–e la caustica matriarca dei Grant (June Squibb, A proposito di Schmidt) e il figlio anchorman (Bob Odenkirk, Breaking Bad) si uniranno a loro–la storia della fortuna di Woody lo farà sembrare per un momento un eroe che fa ritorno a casa. Poi farà uscire allo scoperto gli avvoltoi. Ma servirà anche ad aprire uno spiraglio sulle vite sconosciute dei genitori di David e su un passato più animato di quanto lui abbia mai immaginato. Girato in bianco e nero, in un cinemascope che riflette la cupa bellezza delle cittadine americane e il contrasto tra i momenti divertenti e quelli commoventi della storia, il film contiene ironiche riflessioni sul tema della famiglia e sui suoi enigmi, su delusione e dignità, sull’autostima sul semplice desiderio di riscatto.
NOTE DI PRODUZIONE
Com’era giusto forse, Nebraska ha avuto origine con il tentativo di un vero midwesterner di superare i suoi limiti. Bob Nelson, l’autore di programmi comici originario dell’Illinois, aveva deciso di mettersi alla prova scrivendo qualcosa di più vicino alla realtà. Alla mancanza di esperienza è riuscito a supplire con anni di osservazione e analisi del tipo di personaggi dei quali avrebbe voluto scrivere: i tipi taciturni un po’ buffi, quei modesti abitanti del Midwest che possono lavorare per tutta la vita, andare in guerra, crescere i figli e avere conflitti interiori senza mai raccontare la propria storia a nessuno, nemmeno ai propri familiari.
“Volevo scrivere una storia su gente vera” racconta Nelson. “Mi piacciono le storie che trattano di umanità e volevo scrivere qualcosa sulla gioia di vivere e sulla tristezza che sempre l’accompagna. Volevo anche scrivere qualcosa che facesse commuovere il pubblico, perché sono dieci anni che scrivo pezzi comici. Ma soprattutto volevo che le persone rappresentate in questo film apparissero talmente reali da coinvolgerti completamente nella loro vita”.Questo senso di verità della sceneggiatura di Nelson per Nebraska deriva dalle sue esperienze familiari. “Ho saccheggiato storie della mia famiglia per dar vita alla struttura della storia e poi ho inventato partendo da quelle” spiega.
Un’altra fonte di ispirazione per Nelson sono state le storie vere di anziani cittadini che si presentano negli uffici commerciali per reclamare le loro false vincite. “E’ stato partendo da questo che ho cominciato a chiedermi: cosa accadrebbe se fosse tuo padre il tipo convinto di aver vinto?” ricorda lo scrittore. “Cosa faresti? Ho pensato che un certo genere di figli lo accompagnerebbe comunque, ed è da lì che tutto ha avuto inizio”. Ma quella che inizia come un’impresa donchisciottesca per reclamare un milione di dollari si trasforma in un’impresa ancora più ardita per padre e figlio, qualcosa di simile ad un percorso verso un tacito perdono. “David vuole vedere suo padre come un brav’uomo, ma anche lui ha i suoi problemi” racconta Nelson. “E in fondo in fondo Woody vuole rimettere a posto le cose con la sua famiglia, anche se non sa assolutamente come fare”.
La potente combinazione di umorismo e umanità nella sceneggiatura di Nelson ha subito attirato l’attenzione della produttrice esecutiva Julie M. Thompson, con la quale Nelson aveva lavorato per un progetto alla PBS. “Ho riso molto e mi è sembrata molto sincera e profonda” ricorda la Thompson a proposito della sceneggiatura. “Essendo anch’io originaria del Midwest, mi sono calata completamente nei personaggi”. La Thompson è rimasta talmente colpita dalla sceneggiatura, che a sua volta ha deciso di passarla ai produttori Albert Berger e Ron Yerxa, conosciuti per aver realizzato una serie di film indipendenti di successo, compresi Election di Payne, Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris, e little Children di Todd Field. Dato il titolo della sceneggiatura, Berger e Yerxa hanno subito pensato a Payne, e gliel’hanno spedita quasi dieci anni fa, non molto tempo dopo la fine della lavorazione per Election. “Era una storia molto bella, raccontata con intelligenza e consapevolezza, e abbiamo pensato subito ad Alexander”, ricorda Berger. “Avevamo appena finito di lavorare con lui per Election e avevamo stabilito degli ottimi rapporti. All’epoca avevamo pensato ad Alexander solo perché ci suggerisse un altro regista per il film. Lui ha letto velocemente la sceneggiatura, ci ha richiamato e ci ha detto di avere qualcuno in mente. E noi: ‘Chi?’, e lui: ‘Beh, io’. Ron ed io ne eravamo felici.
Non poteva esserci scelta migliore. L’unico problema è che lui aveva appena finito di girare A proposito di Schmidt e stava per iniziare Sideways” I produttori hanno deciso di lasciare a Payne il tempo necessario e girare il film quando avesse potuto. “I film di Alexander sono molto particolari” osserva Yerxa. “Sono ricchi di idee importanti, ma lui riesce a inserire queste idee in una narrazione divertente, sorprendente, per cui mentre ti godi il divertimento, lui ti parla di aspetti importanti della vita. Nebraska contiene materiale che si presta ad un lavoro del genere. Parla di una situazione che molti di noi affrontano quando i genitori invecchiano. Parla di un figlio che cerca di stabilire un contatto affettivo con una persona che sembra completamente chiusa in se stessa–e della sua scoperta che in fondo c’è qualcosa di generoso e fiero in suo padre. Come una famiglia riesca alla fine ad esprimersi affetto reciprocamente è un tema molto affascinante, sia per noi che per Alexander”. La Thompson era emozionatissima “Sapevo che Ron e Albert, che sono due produttori particolarmente attenti alle storie con personaggi forti, avrebbero apprezzato il materiale e sarebbero riusciti a portare la sceneggiatura sullo schermo. Avevamo i produttori giusti, il regista giusto, dovevamo solo aspettare il momento giusto”. Ci sarebbe voluto un po’ di tempo, ma l’amore di Payne per la storia non è mai venuto meno, e all’indomani del successo di Paradiso amaro, con cinque candidature agli Oscar®, l’ha ripresa in mano.
Payne ha sempre sostenuto che Nebraska fosse una storia non sentimentale e adulta, ma adesso era diventata ancora più in sintonia con la realtà.“Questa meravigliosa sceneggiatura mi era stata data 9 anni fa, e quello che mi aveva affascinato allora era il suo miscuglio di malinconia e di comicità, come accade nella vita. Mi piaceva anche il fatto che lo scrittore avesse vissuto realmente quello che succede nella storia, che aveva perciò qualcosa di personale” dice Payne. “Nel tempo trascorso da allora sono successe molte altre cose nella nostra società, e la storia è diventata come una moderna versione dell’epoca della Depressione. Ma sono convinto che qualsiasi film attinga dall’apoca in cui viene realizzato. L’aria del tempo vi soffia, che lo si faccia consapevolmente oppure no.
Philomena
– Una Judi Dench da Oscar per un film tra i favoriti nella categoria Miglior sceneggiatura non originale. Il regista Stephen Frears arriva al cuore dello spettatore con una storia di maternità negata, ma anche di amore materno, un legame di sangue potente, viscerale e inestinguibile.
LA TRAMA
Irlanda, 1952. Philomena Lee, ancora adolescente, resta incinta. Cacciata dalla famiglia, viene mandata al convento di Roscrea. Per ripagare le religiose delle cure che le prestano prima e durante il parto, Philomena lavora nella lavanderia del convento e può vedere suo figlio Anthony un’ora sola al giorno.
A tre anni Anthony le viene strappato e viene dato in adozione ad una coppia di americani. Per anni Philomena cercherà di ritrovarlo. Cinquant’anni dopo incontra Martin Sixmith, un disincantato giornalista, e gli racconta la sua storia. Martin la convince allora ad accompagnarlo negli Stati Uniti per andare alla ricerca di Anthony.
DAL LIBRO AL FILM
Philomena Lee è rimasta sorpresa dal successo riscosso dal libro di Martin Sixsmith che ripercorre la lunga ricerca per ritrovare suo figlio: «Non riuscivo a capacitarmi del numero di lettere che Martin aveva ricevuto dopo l’uscita del libro».
Ma la sua meraviglia è aumentata quando ha saputo che il libro di Martin sarebbe stato adattato per il grande schermo. Sua figlia Jane ricorda: «Ho ricevuto una telefonata da Martin che mi ha detto che Steve Coogan era interessato ad una trasposizione cinematografica del libro. Mi ricordo di essermi detta che non me lo immaginavo in un ruolo drammatico».
Philomena Lee: «Quando abbiamo incontrato Steve da Martin, mi hanno detto che avrebbero voluto adattare il libro per farlo diventare un film. Pensa un po’: la mia storia! Non pensavo che sarebbe successo. Ma Steve sembrava davvero toccato dalla mia esperienza. Al nostro secondo incontro mi hanno detto che Judi Dench era interessata ad interpretare me. Ero al settimo cielo!» Jeff Pope, che ha co-sceneggiato il film con Steve Coogan, ricorda: «In breve, si tratta della storia di un’irlandese che parte alla ricerca del figlio che le suore le hanno sottratto 50 anni prima. In nessun momento Steve Coogan ha avuto la tentazione di inserire una battuta. Il nostro scopo era quello di restare fedeli ai fatti, sottolineandone l’aspetto emotivo. Sapevamo che sarebbe stato interessante esplorare l’incontro di due diverse culture. Ma la cosa che mi è piaciuta di più è l’idea che ha avuto Steve di rendere Martin un personaggio. Martin non compare nel libro, e Steve ha avuto l’idea di raccontare la storia di quest’uomo della media borghesia, laureato in una prestigiosa università inglese ed un tempo addetto alla comunicazione per il governo britannico, assieme a quella di una modesta anziana signora irlandese. L’incontro tra i due ha rappresentato il nostro punto di partenza. Martin ha accolto l’idea con entusiasmo. Ne abbiamo discusso anche con Philomena e le abbiamo detto che avremmo voluto raccontare la storia che aveva portato alla scrittura del libro. Per lei è stata un’avventura interessante. Il giorno in cui il figlio perduto compiva 50 anni, aveva confidato a sua figlia di aver avuto un bambino fuori dal matrimonio 50 anni prima, che lo aveva dovuto abbandonare e che, da allora, lo cercava. Non credo che abbia immaginato nemmeno per un attimo che la sua storia sarebbe arrivata sul grande schermo. E’ stata cresciuta nel rispetto della religione cattolica e si sente ancora molto in colpa per quello che le è capitato. Si preoccupava di sapere quello che la gente avrebbe pensato di lei. Non voleva mettere in imbarazzo la sua famiglia. Ma credo che il film le abbia permesso di prendere coscienza del fatto che ancora oggi migliaia di persone vivono la sua stessa situazione. Se parlarne permette almeno ad una madre e ad un figlio di ritrovarsi, allora, non fosse altro che per questo, ne è valsa la pena».
Martin Sixsmith dice a proposito del suo libro: «Come molte storie interessanti, anche questa è nata da una coincidenza. Una sera ho incontrato una persona che, sapendo che sono un giornalista, mi ha raccontato la storia di Philomena e del figlio perduto. Era una storia talmente commovente che ho sentito il dovere di raccontarla. Parlava di amore, di separazione, di speranza e alla fine di riscatto. Nella mia vita ho fatto molte cose–ho lavorato per il governo, per la BBC, ho lavorato come storico–ma non avevo ancora mai raccontato una storia veramente vissuta. E più Philomena ed io lavoravamo insieme, più mi sembrava che ne valesse la pena. In un certo senso era come se conducessimo un’indagine di polizia. Sapevamo cos’era successo a suo figlio: lo avevano adottato ed era partito per gli Stati Uniti, ma non sapevamo niente della sua vita. Philomena provava sentimenti contrastanti all’idea che io scrivessi il libro. Per 50 anni ha avuto la sensazione di aver fatto uno sbaglio e di doversi tenere tutto questo per sé. Ma io sono un giornalista, è la mia natura. E non sono né irlandese né cattolico, ho quindi potuto scrivere la storia con maggiore distacco». Il fatto che Judi Dench abbia subito acconsentito a fare il film ha rappresentato un vantaggio concreto. L’attrice ricorda: «Steve ha contattato Tor Belfrage, il mio agente, e gli ha raccontato a grandi linee la storia. Tor mi ha chiamato per raccontarmi il percorso di questa donna straordinaria, ancora in vita, che aveva incontrato Martin Sixsmith e aveva deciso di scoprire che ne era stato di suo figlio. Steve è venuto a trovarmi, ci siamo messi in giardino. Ha cominciato a leggermi la sceneggiatura e ne sono rimasta subito conquistata». Restava comunque una scelta importante da fare: quella del regista. Gabrielle Tana ricorda: «Avevamo pensato a molti registi, ma Stephen Frears era in cima alla nostra lista. Christine Langan, che aveva collaborato con lui per The Queen, gli ha fatto avere la sceneggiatura, che lo ha incuriosito subito». Stephen ha lavorato alla sceneggiatura con Steve e Jeff per tre mesi prima di dirci che accettava. Ho poi contattato Cameron McCracken, a Pathé, per la distribuzione del film. Cameron mi ha ricontattata immediatamente: era affascinato dalla sceneggiatura e dall’idea di tornare a lavorare con Stephen e Judi, e perciò ha acconsentito subito».
Stephen Frears: «Sono molti gli elementi di questa storia che mi hanno incuriosito. Ho apprezzato in particolare il fatto che si trattasse di una storia drammatica frammista ad una specie di commedia romantica. E’ piena di tristezza e di gioia allo stesso tempo, in un miscuglio particolarmente interessante». Stephen Frears era anche particolarmente felice all’idea di tornare a lavorare con Judi Dench. Philomena è il quarto film girato insieme. La loro prima collaborazione, un telefilm per la BBC intitolato «Going Gently», risale al 1981; si erano ritrovati poi sul set di
Lady Henderson presenta Stephen Frears ha incontrato anche Philomena Lee e si ricorda della sua presenza sul set durante le riprese delle scene che si svolgono nella lavanderia del convento. Racconta: «Le ho detto: ‘Non dovrebbe essere qui. Immagino che abbia passato tutta la vita a cercare di dimenticare questo posto’. Ma Philomena è una persona incredibile. Impossibile immaginare che abbia affrontato delle prove così dificili. Non fa mai la vittima, non mostra i segni di ciò che ha dovuto subire. E’ eccezionale, è una donna sincera, franca e diretta. E nel film il personaggio di Judi riesce a conservare la fede, come nel caso di Philomena». Interpretare Philomena ha rappresentato una grande responsabilità per Judi Dench: «Quando si interpreta qualcuno ancora in vita, la responsabilità è maggiore. Bisogna stare ancora più attenti a restare fedeli alla storia». Stephen Frears concorda con Judi su questo punto: «Raccon tare la vita di persone realmente vissute comporta sempre una grande responsabilità, ma questo vale a maggior ragione trattandosi di Philomena, una donna formidabile, un vero esempio per tutti. Comunque mi sembra che con Judi fosse in ottime mani».
Jeff Pope: «La cosa più interessante del film, è che la vita vi occupa una posizione centrale, e se questo permetterà alle madri e ai figli di quell’epoca di identificarsi con i protagonisti, allora sarà meraviglioso. Ma il tema principale è senz’altro il trionfo dell’animo umano. Malgrado le sofferenze patite, il cuore di Philomena resta pieno d’amore».
The Wolf of Wall Street
– Un Martin Scorsese audace e provocatorio che mette in scena visivamente una sorta di moderno “Caligola”, narrando truffe e vizi di un broker d’assalto interpretato magistralmente da un Leonardo DiCaprio in forma smagliante. Una storia vera letta attraverso la lente deformante e surreale di una black-comedy sboccata e senza freni, che racconta l’anima nera, avida e viziosa dell’essere umano.
LA TRAMA
“Mi chiamo Jordan Belfort. L’anno in cui ho compiuto 26 anni, ho guadagnato 49 milioni di dollari, cosa che mi ha fatto incazzare, perché ne mancavano solo tre e avrei ottenuto una media di un milione a settimana”.
Basato su una storia vera, The Wolf of Wall Street segue l’impressionante ascesa e la caduta di Jordan Belfort (interpretato dal tre volte candidato all’Academy Award® Leonardo DiCaprio), il broker di New York che conquista una fortuna incredibile truffando milioni di investitori. Il film segue la folle cavalcata di Belfort, un giovane “nuovo arrivato” a Wall Street che si trasforma via via in un corrotto manipolatore dei mercati e in un cowboy della Borsa. Avendo conquistato rapidamente una ricchezza enorme, Jordan la utilizza per comprarsi un’infinita gamma di afrodisiaci: donne, cocaina, automobili, la moglie supermodella e una vita leggendaria fatta di aspirazioni e acquisti senza limiti. Ma mentre la società di Belfort, la Stratton Oakmont, è sulla cresta dell’onda e sguazza nella gratificazione edonistica più estrema, la SEC e l’FBI tengono d’occhio il suo impero contrassegnato dagli eccessi.
NOTE DI PRODUZIONE
A Martin Scorsese, la storia di Jordan Belfort dava l’opportunità di percorrere strade mai affrontate come realizzatore, arrivando agli estremi comici rappresentati da un’umanità che rimane comunque reale. “La storia di Jordan coglie perfettamente il fascino che provano gli americani verso le storie di ascesa e caduta, come dimostra la tradizione dei gangster”, sostiene il regista. Tuttavia, Jordan ha preso la tradizione dei gangster e l’ha rivoltata come un calzino. Piuttosto che sfuggire alla legge, lui ha cavalcato l’illegalità in ogni modo immaginabile (e talvolta anche inimmaginabile), andandosi a cercare la punizione che ha posto fine al suo mini impero.
Scorsese ha anche visto l’opportunità di affrontare un viaggio sul classico ciclo di euforia, follia e disastri finanziari, che nell’economia moderna sembra ripetersi continuamente. “Essendo una persona interessata alla storia, rimango meravigliato del fatto che accadano continuamente le stesse cose. Ci sono periodi di boom economico, grande euforia, tutti pensano che diventeranno ricchi e ogni cosa andrà bene. Poi avviene il crollo e si capisce che soltanto pochi si sono arricchiti e a spese degli altri. E’ accaduto nell’età dell’oro alla fine del XIX secolo. E’ avvenuto nel 1929. E’ capitato nel 1987, l’epoca in cui si svolge il nostro film. E così è successo nel passaggio tra questo e lo scorso secolo, quando è esplosa la bolla delle dot.com. Poi, è capitato nuovamente nel 2008. Magari accadrà ancora e presto”.
Belfort peraltro era proprio il tipo di personaggio che attirava Scorsese, un uomo di successo, pieno di ambizioni e difetti, che si ritrova a fronteggiare le conseguenze morali delle sue azioni. “Jordan non ha condotto una vita esemplare, era decisamente ignobile”, sostiene il regista. “Lui non aveva intenzione di fare del male a nessuno, ma è quello che ha imparato dal mondo che lo circondava. Mi hanno sempre incuriosito persone come Jordan, Jake LaMotta o Tommy, il personaggio di Joe Pesci in Quei bravi ragazzi. La gente tende a ritenersi diversa da questi personaggi, pensando di non essere come loro. Io invece ritengo che siano come noi. Se fossimo nati in una situazione diversa, magari avremmo finito per fare le stesse scelte e gli stessi errori. Sono interessato a riconoscere come questa componente dei personaggi sia molto umana e perciò dobbiamo venirci a patti”.
Scorsese riteneva che tutto questo fosse evidente nella sceneggiatura di Terence Winter, conosciuto soprattutto per il suo lavoro vincitore dell’Emmy per I Soprano
e per la serie sul proibizionismo Boardwalk Empire, di cui Scorsese è produttore esecutivo. Ma lui negli anni ottanta aveva anche lavorato per Merrill Lynch, quindi era in grado di mettere assieme una conoscenza diretta del mondo finanziario, con un’inclinazione a scrivere dei pericoli di questo stile di vita. Lui ha cominciato a svolgere ricerche attingendo direttamente alla fonte, incontrando diverse volte Belfort. “Jordan è stato molto aperto”, ricorda Winter. “Il libro non nasconde nulla, ma di persona è stato ancora più onesto. E’ entrato nei dettagli dell’uso delle droghe, delle orge, dei rapporti e di tutto il resto. Era un libro aperto. In seguito ho intervistato i suoi genitori, l’ex moglie, gli agenti dell’FBI che lo hanno arrestato, le persone che lavoravano per lui e anche alcune che ha truffato”.
In breve tempo, Winter aveva un ritratto completo di Belfort nella sua testa. “La genialità di Jordan è che lui è estremamente seducente, è divertente, intelligente e anche molto autoironico. Credo che lo stesso si possa dire delle persone che lavoravano per lui. Erano così affascinanti che per un attimo ti dimentichi che stavano derubando tanta gente”. Lo sceneggiatore prosegue dicendo che “per me era interessante, perché ti faceva pensare che ‘Se non fosse per la grazia divina, quello sarei io’. Jordan era un normale ragazzo del Queens. I suoi genitori erano dei contabili e lui voleva soltanto avere successo, un desiderio comune a tutti noi, ma si è ritrovato a finire in una spirale senza controllo. Aveva delle doti naturali di venditore, ma poi è rimasto corrotto dal sistema, fino a quando non lo ha sfruttato a suo piacimento. Io ci vedevo la storia di un ragazzo onesto che si trasforma in un mostro della finanza”. Questo mostro aveva un’insaziabile fame di possedere tutti i giocattoli e i piaceri conosciuti dall’umanità. “Non è soltanto la storia di ascesa e caduta di un tipo che rubava soldi a Wall Street, ma anche quella di una persona la cui vita era piena di situazioni folli, generate dalla sua ossessione per il sesso e le droghe. Lui è diventato dipendente da qualsiasi cosa si possa essere dipendenti”, nota Winter. “Voleva sempre di più. Più droghe. Più donne. Lo yacht più grande. Case ovunque. Ed è andato completamente fuori controllo. E’ stato molto divertente cercare di ricreare questo viaggio folle sulle montagne russe”.
Winter ritiene che questo racconto sia particolarmente attuale, arrivando subito dopo la crisi economica globale che ha messo in evidenza una corruzione diffusa e ha cambiato per sempre la percezione di Wall Street. “Siamo nel 2013, cinque anni dopo il crollo della nostra economia e tante persone responsabili di questi eventi ricoprono ancora posizioni importanti”, fa notare Winter. “Insomma, è il caso di chiedersi se abbiamo imparato qualcosa”. DiCaprio era entusiasta del lavoro di Winter. “Terry ha scritto una sceneggiatura che comprendeva tutti i momenti più folli della vita di Jordan e appositamente per Martin Scorsese. Inoltre, mi ha fornito alcuni dei dialoghi più brillanti che abbia mai avuto l’opportunità di pronunciare come attore. Siamo molto grati che abbia realizzato l’adattamento del libro, perché ha inserito tante sfumature in questi personaggi e ha mostrato un grande coraggio, come nessun altro avrebbe potuto fare”.