Venezia 2016, Paradise: recensione del film di Andrei Konchalovsky
Festival di Venezia 2016: storia di sogni spezzati, Paradise è un Konchalovsky che riflette sull’olocausto chiamando in causa il sacrificio delle donne. Duro ma intenso a metà
Cos’è il Paradiso? E dove si trova? Ciascuno coltiva una propria idea per rispondere a tali quesiti. C’è stato un periodo in cui la Germania doveva credere in qualcosa. Non solo. Aveva un radicale bisogno di immaginare tale meta possibile. Certo, illudersi di esaurire i presupposti dell’ascesa al potere del Partito Nazionalsocialista di Hitler, della Germania post-Trattato di Versailles, in queste due righe, sarebbe sciocco. Ma la Storia c’insegna che poco o nulla accade per caso.
Paradise non vuole impartire alcuna lezione, né aggiungere chissà cosa ad una vicenda che è stata oramai più e più volte rivoltata come un calzino. Nemmeno prende le distanze da argomenti tipici, come colpa collettiva, abiezione umana e via discorrendo. No, più semplicemente tenta di umanizzare quei “mostri” dei nazisti, senza invocare cose come ragione di stato, costrizione, paura, oppure infierire ancora una volta su figure francamente negative. La domanda, semmai, è: come si è potuto credere a tutto ciò?
L’impostazione è teatrale, con questi tre personaggi, un soldato tedesco, una prigioniera ebrea-russa ed un francese intervistati da un surreale oltretomba. Lì, in una dimensione senza tempo, ripercorrono gli eventi che li hanno condotti al punto in cui si trovano: la morte. Konchalovsky non intende tornare sui soliti discorsi, malgrado non manchino delle scene piuttosto forti, anche violente; la dicotomia buono/cattivo non gli appartiene ed il Male viene preso per quello che è, inserito in un contesto in cui per forza di cose tanto viene dato per scontato.
Nella prima metà infatti Paradise non solo stenta a decollare, ma procede in maniera straniante, se vogliamo. Questa reticenza a fornire coordinate lascia leggermente interdetti, ma serve al regista russo per edificare poco alla volta il film che Paradise diventerà negli ultimi tre quarti d’ora o giù di lì. Un film che a quel punto ha da dire qualcosa e sa come dirla; provvidenziali in tal senso le interviste con cui spesso e volentieri viene spezzata la narrazione. Solo dopo si ha modo di rendersene conto.
Quelle riflessioni, quelle risposte a domande che non sentiamo, sono un bilancio che a noi viene però sottoposto in corso d’opera. Intuizione semplice ma efficace, che riempie quei buchi che parole, espressioni e atteggiamenti dei personaggi lasciano scoperti. La donna russa, che per più di una ragione ricorda la Giovanna d’Arco di Dreyer (il ruolo sacrificale, i capelli rasati a zero, il volto segnato dall’inspiegabile dolore), si lascia andare alle avance dell’ufficiale nazista, il quale nel frattempo matura l’inconsistenza della filosofia su cui si regge il pensiero del regime che serve, ovvero il Superuomo.
Dal loro rapporto, anti-romantico per eccellenza, ma anche dallo sviluppo di questi due personaggi presi a sé stante, passa quanto di meglio ha da sottoporci Paradise. Altrove Konchalovsky non può fare a meno di attenersi ad un tenore sin troppo familiare riguardo ai film a tema olocausto; tramite loro due però riesce a colpire, offrendo spunti interessanti. La prospettiva del soldato, ambigua ma onesta (no, non è un ossimoro), conferisce a questo ritratto gelido e malinconico una profondità sufficiente. L’evocativo bianco e nero, bello e maledetto, fa il resto.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
Paradise (Rai, Russia/Germania, 2016) di Andrei Konchalovsky. Con Yuliya Vysotskaya, Christian Clauss, Philippe Duquesne, Peter Kurth, Jakob Diehl, Viktor Sukhorukov, Vera Voronkova, Jean Denis Römer e Caroline Piette. Concorso