Penguin Highway, recensione: la deliziosa via dei pinguini quale antidoto alla rassegnazione di un’epoca
La fine del mondo che è anche un inizio, in un modo inatteso ma familiare. Penguin Highway torna su certi leitmotiv dell’animazione giapponese, offrendo però una variante credibile nonché deliziosa
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Aoyama ha nove anni ma sa già quando diventerà adulto, l’esatto momento proprio, e chi diventerà per allora: a vent’anni avrà già imparato un sacco di cose, la gente lo invidierà per la sua intelligenza, le donne faranno a gara per contenderselo, ma a quest’ultime dovrà dire di no, poiché il piccolo si è promesso in maniera irrevocabile alla sorellona, una ragazza più grande di lui che lavora dal dentista vicino casa. Con la sorellona Aoyama trascorre del tempo giocando a scacchi, intrattenendo delle conversazioni, studiandole il seno, di cui è un attento osservatore («quando sono in collera ci penso mezz’ora al giorno al massimo», chiarisce a un compagnetto).
Mentre va a scuola, un giorno, Aoyama assiste ad uno strano fenomeno: un pinguino appare dal nulla. Vaglia sei ipotesi, con scrupolo scientifico, lui che è figlio a sua volta di uno scienziato. La notizia si diffonde per la piccola cittadina e l’amichetto Uchida vuole investigare insieme a lui sulla provenienza ed in generale sul perché di quei pinguini lì. C’è un mistero dietro a questi animali che camminano per quelle strade, qualcosa che lega una grossa sfera acquatica, la sorellona e appunto i pinguini.
Come i migliori racconti, Penguin Highway ha il merito non indifferente di costruire un mondo la cui coerenza interna, la sua verosimiglianza in tal senso dunque, reggono e catturano dall’inizio alla fine. È un mondo ordinario, quello della campagna giapponese, contemporaneo ma rurale, in cui avvengono cose strane che si avvicendano in maniera di primo acchito strampalata. Un’eccentricità peculiare ma calorosa, che non distoglie, non allontana, per via di quella magia che attraversa la vicenda nel suo insieme, perciò i singoli episodi, trasportandoci in un mondo che oppone cose diversissime tra loro, il cui legame è pressoché impossibile stabilire a priori.
Un racconto che fa leva sull’approccio scientifico, e che non a caso in larga parte si risolve nella storia di un ragazzino, Aoyama per l’appunto, che solo o con altri due coetanei va investigando su una serie di misteri che per certi versi stanno oltre le possibilità della Scienza. Fenomeni particolari, ma che il regista Hiroyasu Ishida, ispirato dall’opera di Tomihiko Morimi, riesce sempre a far rientrare nel reame del quasi-possibile, senza scomodare un soprannaturale per cui questa storia non sembra essere particolarmente portata: infatti già il solo bilanciamento tra i due registri, quello realistico e quello surreale, varrebbe da solo il proverbiale prezzo del biglietto. Tuttavia in Penguin Highway si assiste a qualcosa di più.
C’entra inevitabilmente il fatto di essere un film d’animazione, il che presuppone un certo tipo di sospensione d’incredulità, tale per cui certe “licenze”, chiamiamole così, le si vive con una prospettiva più ampia. Ma sarebbe inesatto limitarsi a una simile considerazione. Il modo in cui Ishida innesca i vari dispositivi del racconto è encomiabile: ora siamo rapiti dalla banalità di una conversazione durante una partita di scacchi presso un localino tipico, oppure lungo la traversata in treno con alle spalle un paesaggio suggestivo, mentre un attimo dopo non si è meno “dentro” alla vicenda quando una lattina di cola si trasforma in un pinguino.
Cos’è successo? Perché? L’apertura di Aoyama a ciò che non capisce perché sostanzialmente straordinario (nel senso proprio di fuori dall’ordinario) consente pure a noi non solo di dare una possibilità al film, ma quasi d’interagire con le varie situazioni, mentre si viene per certi versi cullati dalla delicatezza di taluni elementi che non vengono mai resi espliciti, eppure sono lì, sostanza più che contorno. Si pensi all’alternarsi di ore soleggiate ad altre nuvolose, quell’atmosfera uggiosa che sembra di sperimentare in prima persona, come se anziché un soffitto anche noi avvertissimo quelle nubi incombere su di noi minacciando pioggia.
C’è un momento in cui Ishida rischia d’incartarsi, ossia quando le ricerche di Aoyama, scrupolose come già accennato, approdano a un recap che odora sospettosamente di “spiegone”; e allora sei lì lì per mangiarti le mani, non capendo come il tutto possa sfuggire di mano per un errore così prevedibile. Niente paura, però, poiché il mistero resta intatto fino alla fine, mentre, come da copione, nuove amicizie vengono instaurate, rapporti si saldano, e la consapevolezza dei vari personaggi aumenta con l’aumentare della nostra, di noi spettatori.
Il rapporto tra Aoyama e la sorellona, poi, trasmette un tepore raro, quel suo essere innocente, puro ma al tempo stesso per nulla idealistico, sdolcinato, anzi, ben piantato a terra; e allora si resta imbambolati mentre questi due, un ragazzino e un’adulta, interagiscono in un modo che non t’aspetti ma che nondimeno è bello vedere. In Penguin Highway succedono svariate cose, buona parte delle quali richiedono implicitamente di essere osservate, facoltà di cui il piccolo protagonista tesse le lodi da principio, quasi a mo’ d’invito programmatico: noi, infatti, entrati in questo mondo nel mondo, anticipiamo solo di qualche istante la situazione con cui gli stessi protagonisti sono ad un certo punto chiamati a confrontarsi, quando anche loro “sconfinano” a loro volta in un altro mondo, vero quanto quello da cui arrivano, non immaginato quindi, eppure non necessariamente reale.
Diventa questo il processo tra i più corroboranti del film, non solo un bimbetto che parla e discute come un adulto mentre squadra le tette della donna di cui si sta innamorando e le confronta con quelle della madre per dare loro un senso a priori, oppure la comparsa improvvisa e inspiegabile di strane creature che non si capisce da cosa sono evocate e soprattutto cosa le tiene in vita. C’è tutto un sottotesto che probabilmente vuole essere sondato, che ha a che vedere col micro di certi rapporti interpersonali, così come col macro di una fine del mondo su cui i giapponesi a certi livelli sono gli unici a sapercisi relazionare con quell’irrestibile, specifico impeto nostalgico, lontano da catastrofismi e roba simile, sublimato in toto dalla poesia; sì, va bene tutto, senza però che qualcuno si prenda il disturbo di metterci a parte di quanto ne ha ricavato. Tutt’al più si può timidamente provare a dare un significato alla Penguin Highway, che forse non è una strada, un sentiero, una via, come da definizione, bensì magari giusto un modo possibile di vedere cose impossibili.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
Penguin Highway (Giappone, 2018) di Hiroyasu Ishida. Uscita evento nelle nostre sale, martedì 20 e mercoledì 21 novembre 2018.