Per amor vostro e nostro, facciamo attenzione a non scottarsi
Nel finale della Mostra arriva “Per amor vostro” di Giuseppe Gaudino, un film che è “troppo” in tutto, aggredisce e sfinisce
Quando comincia la proiezione di “Per amor vostro” di Giuseppe Gaudino, regista di 58 anni, cerco di respirare in mezzo al pubblico della Sala Grande che si è fatto rado (ultimo giorno di proiezioni ufficiali prima del solito tsunami di premi) . Respiro, sperando che sia meglio dei tre film italiani che abbiamo visto e che non nomino; andiamo oltre.
Su uno schermo immenso compare il bel volto e il bel corpo di Valeria Golino, nel ruolo di una sorta di Filumena Marturano, tre figli, un marito violento, sedicente fabbricatore di fuochi d’artificio, in realtà usuraio.
Per allontanarsi dal marito Valeria ha cercato lavoro e comincia il lavoro di “gobbo”. Che cos’è il “gobbo”? E’ il termine tecnico per definire il “suggeritore” che durante le riprese scrive e tiene bene in vista i cartelloni con le scritte per gli attori che recitano. In questo film, recitano una fiction televisiva a giudicare dalle battute e dalla atmosfera molle e morbosa delle riprese.
A poco a poco, il racconto si complica, scopriamo i sogni e gli incubi di Valeria, il suo passato di bambina, vita infantile tra incensi e feste religiose in nome di San Gennaro & C. Scopriamo i retroscena della famiglia, in particolare il reticolo di criminalità del padre falso imprenditore, non di fuochi ma a capo di un’impresa criminale estesa (e non dico di più).
Il film nasce in un incrocio tra un sentore di Eduardo De Filippo, Valeria lo cita; la quotidianità mista di canzoni più vecchie che nuove, non solo di Napoli; i figli che sò figli: uno di loro ha l’handicap della sordità e in famiglia tutti hanno imparato il linguaggio dei segni. Tutto intorno al nucleo, un reticolo di persone, case, viuzze, malesseri che Napoli, la Napoli di sempre, trova qualcuno che la mette in piazza e in caricatura del bisogno; infine, l’eco della Hollywood partenopea e parte made in Usa, ricopiata in soap tv, derivata dalla massa di puntate di “Un posto al sole”, record di Rai3 per durata e successo. Formula narrativa… Chiudere lo shaker e preparare il cocktail, scuotendo ripetutamente.
Non me la sento di continuare il racconto dei contenuti del film e nemmeno delle tecniche di post produzione per colorare il bel cielo sul Golfo di nubi e lampi, e far montare il mare in bufere sordide. Me la sento invece di scrivere che io e la sala cominciamo a perdere il rapporto con la tela dello schermo e le pennellata di Gaudino. Sento che la buona predisposizione verso la quarta prova italiana, dopo la scoraggiante performance dei primi tre, sta cedendo, dolorosamente.
Sento che il pubblico, e io pure, stiamo perdendo il filo diretto con una regia disinvolta, con troppe inquadrature con la macchina a spalla, con gli attori che sono tutti bravi, anzi bravissimi ( napoletani attori nati). Lo perdiamo anche, con la città che nonostante tutto recita bene il suo ruolo d’inferno atavico. Certamente Gaudino conosce vita, morte e miracoli del cinema, e abusa tuttavia di miracoli, sfiorando il collasso. Come il marito usuraio, pretende troppo da noi umani spettatori.
Con un ritmo diverso, meno preoccupato di fare sensazione; con uno stile capace di rinunciare alle tavolozze elettroniche; con un’altra misura nella recitazione che così com’è echeggia una sceneggiata di guappi e Filumene, forse il danno sarebbe stato non dico meno grave ma il film più accettabile. Peccato.
L’Italia esce di scena senza onore, anzi con disonore, esagero volutamente, per ambizioni sbagliate, velleità, confusioni (dai soggetti alla narrazione, alla disattenzione e noncuranza del pubblico).
Il problema è grosso assai, come dicono a Napoli. E il penultimo giorno della Mostra se ne va, ingloriosamente, con altezzosa dignità, ma con chiara consapevolezza della necessità di rimediare. Senza strepiti e senza polemiche o scandali. Il problema c’è. Però.