Perché il mondo ha ancora bisogno di Superman
Superman o L’uomo d’acciaio? Il reboot milionario può davvero rimpiazzare un classico entrato nel cuore di milioni di spettatori? O forse è possibile amare entrambi anche se, ovviamente, per motivi diversi?
La pimpante Lois Lane di Superman Returns, ingiustamente sottovalutato sequel del 2006 nonchè pellicola nel solco della tradizione inaugurata da Richard Donner, si presentava a inizio film fresca di un Premio Pulitzer grazie a un articolo intitolato “Perché il mondo non ha bisogno di Superman”. Un assunto, quello della giornalista, che nel film di Bryan Singer rappresentava la reazione polemica e disperata di quel mondo abbandonato senza spiegazioni dall’uomo d’acciaio e che invece oggi potrebbe essere un valido punto di domanda dinanzi al reebot “L’uomo d’acciaio” film che, tra incassi miliardari e accoglienze contrastanti, è costretto al contempo a raccogliere una pesante eredità e a proporsi come nuovo punto di riferimento dei cinecomics.
Si sa, le ragioni alla base del recente restyling di Nembo Kid (questo il suo nome di battesimo italiano) sono al solito più economiche che nostalgiche e l’idea di far contrattaccare la corazzata Avengers da un’altrettanto agguerrita Justice Leage deve aver allettato non poco una Warner Bros ancora inebriata dal ciclone “Dark Knight” ma con in saccoccia quel solo supereroe e una “lanterna verde” dalla luce troppo fioca. Ecco quindi Superman o, giusto per evitare ingombranti legacci col passato, l’Uomo d’acciaio per le nuove generazioni, quelle pronte magari ad amarlo al di là della inevitabile terza dimensione sotto cui si presenta e oltre il fragore dei suoi interminabili cataclismi metropolitani.
Sotto il profilo puramente utilitaristico la risposta alla domanda di Lois Lane è quella che ci si potrebbe aspettare: l’industria cinematografica, com’è ovvio, avrà sempre bisogno di Superman (e a giudicare dagli incassi anche più di uno). Resta ancora la questione morale o, più propriamente, cinefila e cioè: il mondo ne ha ancora bisogno? Da nostalgico appassionato e quarantenne innamorato perso degli anni ’80 la risposta possibile è una sola: non c’è Uomo d’acciaio o tonitruanti percussioni alla Zimmer che potranno mai scansare dal cuore del bambino che fu il Superman di Donner col suo compianto protagonista Christopher Reeve o la partitura esaltante di un John Williams in stato di grazia.
Si invitano pertanto urgentemente le nuove generazioni, non troppo disponibili a tuffi cinefili nel recente e già misconosciuto passato, a fare una rapida ricognizione nei cieli di Metropolis del 1978. Il piccolo e necessario bagno d’umiltà servirà (si spera) a far prendere loro confidenza con epoche, colori e tempi che inizialmente gli suoneranno insoliti o perfino inconcepibili ma che invece altro non erano che i raccordi che il cinema stabiliva con i tempi della vita, quel cinema che sapeva già tagliare fuori i momenti morti restituendo solo l’incanto dell’avventura. Prenderne atto è necessario soprattutto per comprendere che la velocità, cui il cinema ha assecondato il suo attuale linguaggio, non è stata sempre la sola dimensione possibile quanto piuttosto frutto di una scelta. L’uomo d’acciaio alla fine degli anni ’70 sfrecciava veloce o lento in base alle necessità della storia; quello di oggi schizza come un boeing perché deve assecondare i tempi e l’esuberanza della i-Generation come legge del blockbuster impone. Ecco perché occorrerebbe tornare umilmente al passato ed ecco perché, sotto un certo profilo, per molti oggi non c’era bisogno di un altro Superman.
Chiusa la questione morale passiamo a quella ludico-cinematografica tagliando subito corto: Zack Singer, lo si ami o si detesti, è un regista con gli attributi, fatto già testimoniato da pellicole come “Watchmen” e “ L’alba dei morti viventi”. Della sua ossessione estetica e di quel gusto per la contaminazione cinematografica di nuove forme espressive (videoclip, videogame e così via) gli spettatori diventano sempre più consapevoli dopo ogni nuova pellicola. Un artista insomma, da analizzare più che bistrattare aprioristicamente e che in “L’uomo d’acciaio” sembra essere giunto ad un nuovo punto fermo della sua carriera (una maturità?), essendo riuscito a bilanciare perfettamente il suo immenso apparato visivo (qui arriva perfino ad autocitarsi tra Sucker Punch e Watchmen) con una propulsione al realismo quasi inedita. Il suo uomo d’acciaio è vero, sporco, perfino barbuto, così come la Terra e Krypton, mondi speculari e perfettamente verosimili, sono anche le due dimensioni tra cui si gioca l’identità di un combattuto Kal-El, supereroe in cerca di un posto (l’intuizione più tangibile e toccante del film).
A volerlo individuare potremmo dire senza problemi che il fulcro del film, e quindi il suo tema, è l’eredità di un padre e di un popolo e delle conseguenze che la mancanza di ogni riferimento produce (anche su Zod, più che un vero cattivo un esule disperato e amorale). Non proprio il giocattolone vuoto che si vorrebbe insomma. Questo nuovo Superman sembra aver quindi qualcosa da dire (e da dare?) anche alle nuove generazioni (il rapporto coi genitori umani, pur con pochi tocchi, è sondato in modo veritiero) anche se lo fa sotto la lussuosa “scorza” di un blockbuster multimilionario e frastornante e senza il carisma e il calore che Christopher Reeve aveva saputo infondere al personaggio. Il finale poi è puro Zack Snyder a briglia sciolta; scegliete voi se ammirarlo come barocca esibizione del suo ribollente catastrofismo o bollarlo come machistico autocompiacimento alla Michael Bay (personalmente, e dopo averlo visionato un’altra volta, non mi vergogno a propendere più per la prima).
Così, tornando all’assunto iniziale di Lois Lane, ma stavolta col punto di domanda, mi addosso il fardello di una risposta dicendo perchè no? il mondo, dopo il suo primo Superman, può ancora avere bisogno di un altro “uomo d’acciaio”. Il difficile semmai è che entrambi possano convivere nel cuore del medesimo spettatore.