Perché Peter O’Toole è stato amato da vivo e ancora più da morto?
Capita ancora di leggere più che i “coccodrilli”, ovvero i ricordi della stampa, dei veri e propri rimpianti estetici del grande attore: solo perché era bello?
Guardo al presente e anche avanti. Mi fa piacere in questi giorni di occuparmi di Peter O’Toole, a pochi giorni dalla morte a ottant’anni e novanta film. Grondano le lacrime, ed è giusto: le lacrime sulle pagine della stampa a cui vanno aggiunte le cipolle tagliate dei media, felici come sempre di occuparsi di morte, sia naturale che per delitto. Però. Peter O’Toole ha riscosso l’ultimo successo con il decesso; sono sicuro che il gioco di parole gli sarebbe piaciuto perchè era un uomo spiritoso; me ne resi conto quando lo incontrai a Londra, peraltro fuggevolmente.
Dunque. Come mai? Questo successo è dovuto a molti fattori. In primo luogo, alla sua fisicità. Dall’Irlanda e dell’Inghilterra sono spesso, molto spesso, venuti fuori attori e divi, maschi e femmine, di grande bellezza. Non faccio neppure i nomi: dico solo che Vivien Leigh (Via col vento) e appunto di Peter O’Toole o Terence Stamp possono bastare come citazione. Osservo che la cosa riguarda anche la musica, e cito solo David Bowie. Figure di bell’aspetto e di grande capacità sia sulla scena che nel cinema e nella tv. Anche in tv, come dimostrano le serie contemporanee tipo “Downton Abbey”. Volti e corpi aristocratici (Lawrence Olivier), di gente di campagna e di miniera o fabbrica (Richard Burton).
Volti e corpi plasmati dalle origini di quelle terre affascinanti, ma non facili per noi mediterranei; frutto di una educazione secolare, in cui il teatro costituisce la forte colonna portante, mai tradita, poiché a sua imitazione sono sorte colonne del cinema; senza dimenticare il teatro e la letteratura, anche in questo caso non serve fare nomi o meglio ne faccio solo pochi (il vecchio durevole Charles Dickens, i sempre verdi Agatha Christie, Harold Pinter, Doris Lessing).
O’Toole, lo hanno ricordato tutti, aveva occhi blu che risaltavano su sfondi grigi e su sfondi solari in mezzo ai deserti di “Lawrence d’Arabia”, sguardi enigmatici o taglienti, colmi di rapide tenerezze; aveva un sorriso breve e luminoso, era snello, e “sapeva indossare”. Voilà la carta vincente: recitava in modo affascinante, sapeva tenere insieme la sapienza del teatro e la velocità del cinema, da vivente ossimoro della recitazione, oltre che della presenza scenica. Questo discorsetto, dopo avere aperto porte sfondate, per aggiungere qualcosa che ci riguarda.
Da osservatore praticante della contemporaneità in arte e nello spettacolo, in letteratura e nella musica (tutta), di fronte al monumento che le prefiche di ogni sesso hanno edificato per Peter avviato al cimitero dei giusti, mi pare giusto (sottolineo la ripetizione) fare mini-considerazioni su un tema che ha un peso grande anche da noi, e che però sembra passare sotto silenzio. Ovvero: come va con gli attori, i nostri attori, les italiens?Lasciando con pudica prece il passato, in cui il cinema prendeva dal teatro e dalla strada (retorica neorealista durata troppo), mi pare di poter dire che ci possiamo tranquillamente lamentare. Lamentare, come una piccola premessa. Da prima di Cinecittà (1937) agli anni 30-40-50-60 e oltre, gli attori belli e bravi non sono mancati.
Da Clara Calamai ad Alida Valli, da Raf Vallone a Marcello Mastroianni, a Gian Maria Volontè, a Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Alberto Sordi, il nostro cinema ha avuto delle vere e proprie risorse indiscusse. Risorse a cui hanno attinto produttori e registi per fare eccellenze che tutti riconoscono per valide. Poiché, entrando nei tempi nostri, attuali, vorrei evitare il c’era “anche” questo o quello, non faccio nomi, e credo di poter essere assolto dall’accusa di reticenza. Il mio scopo, chiarisco, è sottolineare per chi non vuole intendere che i giovani o quelli ancora sulla breccia, vivono in una realtà paradossale.
Non mancano le scuole, anzi se ne aprono delle nuove, di continuo. Le crisi, quella di sempre e quelle nuove, sembrano produrre con effetto perverso corsi di vario tipo, a pagamento; dopo di che il maledetto “mercato” di cui ci si dimentica troppo spesso non è in grado di assorbire gli attori esordienti. Un’autentica catastrofe. Si produce poco e male? Bene, molto bene, l’assenza di produzioni stimola l’apertura di scuole e purtroppo spesso di involontari spostati, cioè giovani in cerca faticosissima di un primo, secondo lavoro.
Ma la vera catastrofe è che mancano oggi i maestri. Tante attrice belle, bellissime trovavano nei produttori (alcuni addirittura se le sposavano) e negli autori autentici maestri che insegnavano loro i rudimenti del set. Le più brave completavano imparando dizione, movimenti, attenzione al loro corpo, e così via. Per gli attori non è stato diverso. Ragazzi belli e simpatici venivano “attrezzati” da maestri che erano gli stessi, davano loro tecniche e dritte culturali, artistiche. Non la tiro alla lunga. Il vero luogo del cinema in cui s’impara è il set, il lavoro con i registi e i loro collaboratori. Un cinema valido lo sa, tiene a sostenere le produzioni per portare tutti quanti vi operano a una conoscenza e a un miglioramento che è fatto di laboratori concreti, in cui vivono e si fondono molte tensioni (a volte molto intense e non sempre piacevoli) di un mestiere che ha bisogno di preparazione e di concreta.
Così nascono i Peter O’Toole, e non muoiono mai dopo i coccodrilli. Il cinema italiano non ha più da anni un sistema, una logica. Brucia il retroterra tradizionale, non si rinnova, fa fatica ad avere idee perché ha paura e non le cerca; è lento nelle tecniche e nelle soluzioni vive, concrete; rifiuta di modificarsi: per gli attori, un volto insignificante e raccomandato tv ha spesso la meglio. Il cinema italiano, che pure è vivo, ma abbandonato in corsia d’ospedale, non ha una vera prospettiva pensata, logica produttiva e di mercato, ideativa ed economica. Cerca i livelli bassi, sciupa i suoi attori migliori o che lo possono divenire. I Peter O’Toole ci sembrano così chilometri sopra il cielo!