Piccola patria: recensione in anteprima del film di Alessandro Rossetto
Storia noir e registro osservazionale: il documentarista Alessandro Rossetto firma con Piccola Patria il suo primo lungometraggio di finzione. Il ritratto impietoso non solo del Nord-Est, ma dell’intero paese. Con un’ottima partenza che porta ad un finale con meno forza.
Non è un film sul Nord-Est, Piccola Patria. Almeno, non solo. A suo modo funziona come Il Capitale Umano di Virzì: ancorato ad una realtà italiana ben concreta, che però si fa specchio di un intero paese. Che non sia specificato il paesino dov’è ambientato il film dovrebbe già far pensare.
Si parla in dialetto veneto, dominano l’odio, la rabbia, il razzismo e l’omofobia. Gli adulti sono burberi, i giovani persi e senza speranza. Sì: siamo innegabilmente da qualche parte in Veneto. Però siamo innanzitutto in Italia, e questa sembra l’urgenza principale del film di Alessandro Rossetto, documentarista alla sua prima prova con un lungometraggio di finzione.
Protagoniste di Piccola patria (titolo che è già un programma, e che indica una parte di qualcosa) sono due ragazze, Luisa e Renata. Una più vitale e disinibita, l’altra più oscura e arrabbiata. Luisa frequenta Bilal, un ragazzo albanese, e Renata chiede a Luisa di aiutarla a compiere una vendetta: per far ciò dovrà “usare” Bilal. Tra ricatti e violenze, le due ragazze tenteranno di fuggire dalla comunità che le ha cresciute.
“Te piasi i schei?”, “ti piacciono i soldi?”, ripete spesso Renata. “No”, le risponde sfinita Luisa, per poi rimettersi sulla difensiva: “Ovvio che mi piacciono”. A chi no? Però già il fatto che la reazione spontanea della ragazza ad una vendetta e a un ricatto che sta per travolgere tutto e tutti sia quella di una risposta negativa indica un barlume di speranza.
Barlume di speranza all’interno di un film cupo, cupissimo, in cui il dialogo tra generazioni è stato annullato da tempo. “Finché siamo vivi abbiamo tutti la stessa età”, dice un vecchio anziano alle due ragazze. Se così è allora tutto è possibile, perché non si capiscono neppure le differenze tra gli uni e gli altri. E forse non frega più nulla a nessuno, basta tirare avanti come si può. Sopravvivere.
Rossetto non perde il suo occhio documentaristico e apre il film nel migliore dei modi. Un dialogo inquietante e “fisico” tra un uomo e Renata, e dei titoli di testa con inquadratura dall’alto sul paesino con un canto corale alpino in dialetto veneto (alle musiche ha collaborato Bepi De Mazi, maestro vicentino). Il regista non può non osservare, far improvvisare i suoi attori e farli parlare in dialetto, girare in modo secco e deciso: con un soggetto e delle intenzioni del genere, il risultato dev’essere il più possibile aderente alla realtà.
Il degrado che si vede e in qualche modo si “respira” in Piccola Patria nasce sia dal canovaccio noir, sia dal modo in cui Rossetto ruba la quotidianità del paesino dov’è ambientata l’opera. Sagre, feste di paese e balli, e soprattutto un comizio di indipendentisti veneti (tutto vero! È tenuto da Gianluca Busato): quanta gioia.
Nel suo approccio ricorda decisamente certo cinema indie americano, soprattutto quello rurale e sudista, diviso a metà tra soggetto e documentario. Lo aiutano il contesto estivo ed afoso, che comunque non disinnesca il grigiore della storia, e la convinzione degli attori, che evidentemente conoscono come il regista l’ambiente in cui stanno lavorando.
Per alcuni uno dei migliori titoli italiani dell’anno, Piccola Patria ha tutti gli spunti d’interesse dell’opera prima sentita e sincera. Ma ha anche i difetti dell’opera prima di chi viene dal documentario e prova ad esplorare il mondo della finzione. Il racconto si fa troppo lungo, man mano che prosegue il risultato si fa sempre un po’ più acerbo di prima, e il “messaggio” assume il tono della tesi.
Voto di Gabriele: 6
Piccola patria (Italia 2013, drammatico 110′) di Alessandro Rossetto; con Maria Roveran, Roberta Da Soller, Vladimir Doda, Lucia Mascino, Diego Ribon. In sala dal 10 aprile 2014.