Pinocchio, la recensione: quanta meraviglia nel povero e artigianale burattino di Matteo Garrone
Spiazza e affascina il burattino di legno di Matteo Garrone, dal 19 dicembre in sala.
Dal capolavoro animato Disney del 1940 alla deludente versione di Roberto Benigni, 17 anni dopo il trionfo ai Razzie Award tornato sul set per interpretare un anziano e dimesso Geppetto, che usa lo scalpello per raschiare la forma di formaggio, non avendo un soldo in tasca nè un tozzo di pane da mangiare. Garrone, che aveva già ampiamente dimostrato di saper maneggiare il ‘fantasy’ d’autore con il meraviglioso Il racconto dei racconti – Tale of Tales, si affida ciecamente alle pagine di Collodi, spesso trascurate, nei tanti adattamenti visti in tv e al cinema, regalando al pubblico un Pinocchio artigianale, tutto trucco e manovalanza da Oscar, sgualcito e sudicio, un ingenuo burattino di legno dal cuore tenero in un’Italia popolata di poveracci e figure antropomorfe.
Non solo i celebri Gatto e la Volpe, interpretati da Rocco Papapleo e da un sorprendente Massimo Ceccherini, co-sceneggiatore del film, ma anche una meravigliosa signora Lumaca, interpretata da Maria Pia Timo; un Grillo partenopeo che ha i lineamenti di Davide Marotta, famoso e indimenticato alieno Ciribiribì della Kodak; uno strepitoso giudice scimmia con il volto e la mimica di Teco Celio; il Corvo, la Civetta, l’Omino di burro e ovviamente i tanti personaggi secondari ideati da Collodi, che il piccolo e bravissimo Federico Ielapi, al suo debutto cinematografico nella corteccia del protagonista (ore e ore di trucco al giorno), incrocerà per la sua strada, avventura dopo avventura.
L’immaginifica rappresentazione di Garrone abbraccia i suoi soliti mostri, ancora una volta setacciati con cura e maestria da un direttore casting di inaudita bravura. Non c’è comprimario in Pinocchio che stoni, che non rubi la scena anche solo per pochi secondi, persino con una manciata di battute a disposizione. Dal dolcissimo Mangiafuoco Gigi Proietti al maestro di scuola Enzo Vetrano, passando per il piccolo Lucignolo, il direttore del circo Massimiliano Gallo, i circensi, Mastro Ciliegia, l’Oste, Remigio, il venditore dell’emporio, i burattini viventi ma con fili portanti in arrivo da chissà dove, il banditore, e quello splendido tonno finale, che ha voce e volto del bravissimo Maurizio Lombardi, a caccia di teneri baci da portare nelle profondità del mare.
Volti irriconoscibili, coperti di peli, becchi, piume, che vagamente rimandano a La Storia Infinita di Wolfgang Petersen, capolavoro anni ’80 qui riproposto in chiave collodiana, abbandonando quasi del tutto quella CG che negli ultimi due decenni ha aggiunto verosimiglianza all’insieme finale ma tolto cuore ai suoi personaggi.
Visto in tutte le salse, Pinocchio non ha probabilmente più nulla da raccontare, eppure fior fior di autori cullano ancora oggi progetti, adattamenti, nei confronti di questo burattino senza tempo. Ed è forse questa l’unica pecca di un film che visivamente parlando è un trionfo di maestranze, ma a togliere e mai ad aggiungere. Perché è la miseria a trionfare, quasi il minimalismo. Persino il Paese dei Balocchi, che tutti noi abbiamo sempre visto ricchissimo e sgargiante, non è altro che un cortile riempito di paglia e giocattoli di legno per asini da rivendere al miglior offerente. Altalene, scivoli e poco più, ma evidentemente abbastanza per bimbi poverissimi, senza nulla, cresciuti nelle campagne, come nell’Italia di fine ‘800. Da noi tutti conosciuta, perché siamo letteralmente cresciuti con le avventure di Collodi, la storia di Pinocchio non ha più sorprese da potersi giocare, se fedelmente riportata, ed è qui che l’adattamento di Garrone fatica, perché quello è e quello lo sappiamo a memoria, carburando grazie ad una messa in scena d’autore che ribadisce, casomai ce ne fosse ancora il bisogno, l’eccezionale bravura di un regista in grado di realizzare un fantasy realista. Rendendolo credibile.
Girato tra Toscana, Lazio e Puglia, con 11 settimane di riprese, la grigia fotografia di Nicolaj Bruel, gli sporchi costumi di Massimo Cantini Parrini, le musiche del premio Oscar Dario Marianelli, le decadenti scenografie di Dimitri Capuani e l’incredibile trucco di Mark Coulier, 2 volte premio Oscar e dietro il make-up della saga di Harry Potter, questo Pinocchio ha il coraggio di fuggire dalla spettacolarizzazione a tutti i costi.
Si prende i suoi tempi e ad un certo punto pecca di ridondanza (vedi il Gatto e la Volpe), immergendo lo spettatore in un universo fantasy spiazzante, perché abbagliante nella sua desolazione, perfettamente abbracciata nei lineamenti di un Benigni inedito, bravissimo, malinconico e drammaticamente esilarante. Un Geppetto ciecamente innamorato del suo Pinocchio, da lui stesso forgiato, disposto a tutto pur di ritrovarlo, con la barba incolta e i capelli sporchi e arruffati a rimarcare una semplicità che l’attore premio Oscar rende plausibile. 17 anni dopo quell’insensato Pinocchio che da 50enne lo vide interpretare un bimbo di legno, il Benigni nazionale ritrova finalmente espressività e logicità, attraverso un ruolo secondario ma centrale, inaspettato e commovente. A tratti cupo e visionario, il Pinocchio di Garrone fatica a posizionarsi nei confronti di un preciso target di riferimento, perché forse troppo adulto per i più piccoli e troppo adolescenziale per i più adulti, e per questo quasi respingente, ma ha un’anima, una una potenza visiva e una sensibilità di rara delicatezza.
[rating title=”Voto di Federico” value=”7.5″ layout=”left”]
Pinocchio (Ita, 2019, drammatico, fantasy) di Matteo Garrone; con Federico Ielapi, Roberto Benigni, Gigi Proietti, Rocco Papaleo, Massimo Ceccherini, Alida Baldari Calabria, Alessio Di Domenicantonio, Maria Pia Timo, Davide Marotta, Paolo Graziosi, Gianfranco Gallo, Massimiliano Gallo, Marcello Fonte, Teco Celio, Enzo Vetrano, Nino Scardina – uscita giovedì 19 dicembre 2019.