Precious: Cineblog incontra il regista Lee Daniels
In occasione del lancio in Italia di Precious, con un ritardo di oltre un anno, il regista Lee Daniels è venuto a Milano e noi non abbiamo perso l’occasione per incontrarlo. Autore di film indipendenti, ma di buon successo (sia di critica che di pubblico) come The Woodsman e Monster’s ball, Lee Daniels ha conquistato
In occasione del lancio in Italia di Precious, con un ritardo di oltre un anno, il regista Lee Daniels è venuto a Milano e noi non abbiamo perso l’occasione per incontrarlo. Autore di film indipendenti, ma di buon successo (sia di critica che di pubblico) come The Woodsman e Monster’s ball, Lee Daniels ha conquistato con Precious due Oscar e oltre sessanta premi in Festival sparsi in giro per tutto il mondo. Ecco cosa ci ha raccontato del suo rapporto con il cinema, l’Italia e il film che ha appena presentato.
Quale è il suo rapporto con l’Italia?
Ci sono tre registi che considero i miei maestri. Spike Lee, Almodovar e Federico Fellini. Di recente mi sono messo a lavorare su un progetto che voleva essere un omaggio a Le notti di Cabiria, che è stato il film che mi ha fatto capire che volevo diventare un regista. E’ stata quindi una doppia sorpresa quando mi ha telefonato Dino De Laurentis, che di Fellini è stato il produttore, che dopo aver visto Precious mi chiedeva quali fossero i miei progetti. Ora che sono in Italia per il lancio del film, il destino ha voluto che Dino ci lasciasse. Sono stato al suo funerale, è una perdita incolmabile
Foto | Carlo Prevosti
Come è nato il progetto di Precious?
Ho letto il libro quasi nove anni fa e subito mi sono sentito riportato alla mia infanzia. Ricordo un giorno, avrò avuto 5 o 6 anni, e una bambina obesa che abitava vicino a noi bussò alla porta. La trovammo praticamente nuda e coperta di sangue, qualcuno l’aveva presa a frustate con una cintura. Piangeva e continuava a ripetere che la madre l’avrebbe uccisa. Io ero in imbarazzo, perché era una mia amica, ma la cosa che mi ha spaventato di più è stato lo sguardo di terrore negli occhi di mia madre. Così ho tenuto il libro sotto il cuscino fintanto che non sono riuscito a convincere Sapphire a concedermi i diritti per farne un film.
Come è partita la collaborazione con Lenny Kravitz e Mariah Carey?
Lenny è un caro amico, anzi quasi un fratello per me. Sapevo che gli sarebbe piaciuto mettersi alla prova nel mondo del cinema e quando gli ho proposto la parte che avevo pensato per lui è stato felicissimo di partecipare. Il ruolo dell’assistente sociale invece era stato pensato all’inizio per Helen Mirren, ma lei non ha potuto lavorarci perché impegnata su un altro progetto. Per caso mi sono trovato a parlare con Mariah Carey proprio di quella parte e ho pensato che potesse essere perfetta per il ruolo, ne ho parlato con Helen che mi ha confermato la bontà dell’idea, Mariah è stata perfettamente a suo agio anche a recitare senza un filo di trucco.
I sogni di Precious la portano nel mondo del cinema?
Nel libro il racconto è estremamente diretto e lineare. Mentre mi immaginavo il film non volevo renderlo troppo pesante e insopportabile per lo spettatore, così ho inserito alcune scene oniriche nei momenti di massima tensione, dopo le violenze in cui sprofonda Precious. Serviva un momento per far riprendere il fiato al pubblico ma anche un espediente che mi permettesse di non mostrare le violenze in modo diretto, anche per non farlo incappare in un divieto ai minori. Mi sono ispirato al cinema, a Sophia Loren de La Ciociara ma anche a All That Jazz di Bob Fosse, alcuni fra i film che amo di più.
Il film negli Usa è stato anche accusato di razzismo e di abusare di stereotipi, che ne pensa?
Sicuramente sono state critiche che mi hanno fatto male, ma ammetto che non sono state del tutto inaspettate. Per il film Monster’s ball sono stato criticato perché c’è una scena di sesso tra Halle Berry e Billy Bob Thorton. Il problema è che la cultura afroamericana spesso si rivela poco aperta, sarà forse la discendenza da un popolo di schiavi, ma in troppi oggi aspirano a diventare come Obama ma dimenticano il loro passato. A me non interessano le polemiche, sono un artista e sono felice solo se posso raccontare la storia che voglio. Credo che Precious sia in realtà una storia universale, dedicata a tutte le donne che subiscono questo tipo di violenza.
E’ stato difficile dare un volto a Precious e a sua madre?
Per trovare Gabourey Sidibe abbiamo fatto un casting a oltre quattrocento ragazze. Ma non è stato semplice, non puoi chiamare un agente e chiedere un’attrice nera di centocinquanta chili. Così abbiamo girato per le strade, le stazioni, i fast food di città come New York, Chicago e altre con una forte comunità nera. Alla fine siamo rimasti con dieci ragazze e al momento del provino ci siamo resi conto che mentre tutte le altre ragazze erano al loro modo delle vere Precious, Gabby invece recitava. Lei era una vera attrice. Non volevamo sfruttare una vera situazione drammatica, avevamo bisogno di qualcuno che recitasse davvero. Su Mo’nique invece non ho avuto dubbi. Negli Usa lei è un personaggio comico famosissimo, ma ha saputo tirare fuori una grandissima prova drammatica. C’è una grande fiducia tra di noi.
Nel film si toccano temi come il rifiuto dell’aborto e i problemi del sistema scolastico americano…
Sono un regista, non un politico. La scelta di Precious non vuole diventare un manifesto antiabortista, ma una sua scelta di vita. Il discorso è un po’ diverso per il sistema scolastico, che in America è un incubo. Se non sei ricco spesso è molto difficile garantirsi una decente istruzione, questo è il mondo di Precious e quello in cui sono immersi centinaia di migliaia di altri ragazzi come lei.
Perché ha scelto gli anni ’80 per ambientare il film?
Prima di tutto il libro è stato scritto in quegli anni, in secondo luogo perché l’Aids in quel periodo era un problema reale. Tantissimi dei miei amici sono morti per colpa di quella malattia, io stesso mi reputo fortunato ad essere ancora sano. Ora qualcosa si può fare, chi diventa sieropositivo ha speranze di vivere ancora a lungo, ma negli anni ottanta la malattia era quasi incurabile.