Quando il cinema attraverso la farsa allude alla verità: Eduardo naturalmente…
L’impegno nel cinema italiano di oggi sembra essersi ridotto e dissolto, l’attualità in stile tv esce dai grandi schermi
Nel bilancio di fine stagione, i numeri sono chiari. Tranne la commedia ultramiliardaria di Checco Zalone, “Sole a catinelle” , piovono spiccioli nelle casse del cinema italiano; eppure si producono 335 film l’anno: dove sono, chi sono, come vengono finanziati, perché vengono finanziati? Il gioco vale la candela?
Sono interrogativi a cui non so dare una risposta. Pare che si debba vivere in un’inerzia inesorabile, nel vuoto di ipotesi e di rapporti veri sul rapporto necessità, creatività, finanza, mercato.
Me lo chiedo mentre, silenziosamente, sto guardando indietro, al nostro cinema che arrancava spesso ma procedeva. Lo faccio mentre sta per uscire il mio libro “Eduardo De Filippo, scavalcamontagne, cattivo, genio consapevole”, edito da Ediesse, che uscirà a settembre.
Queste righe non sono un’anticipazione del libro, ma un nodo di prendere la rincorsa dal passato del nostro grande, non sempre gracile cinema, per esplorare carenze, approcci all’impegno, esitazione di progetti in cui si fonda un cinema contraddittorio, tra denunce che pedinano l’attualità e a poco a poco si stanno dissolvendo. Perché?
Comincio dal lontano, da film che si stanno lasciando alle spalle il neorealismo di De Sica, Rossellini, De Santis, Visconti e pochi altri… piccole e grandi briciole che si perdono per strada come Pollicino della favola, concludendo con “Miracolo a Milano” (1953) con i poveri che volano a cavallo di scope.
Non è una favola “Napoli milionaria” (1950) di Eduardo, Napoli ossessionata dalle miserie e dal bisogno- volontà di fare soldi, dal ricordo della guerra e delle malattie in agguato, sul tram di una vita dalle molte facce viaggia ancora verso di noi la celebre battuta di Gennaro Iovine, “…addà passà ‘a nuttata”, che è diventata la metafora di una sorte ostile che ha tappe tutte sue proprie, promette felicità immediata, semina dolori e ansie.
Non è una favola “Filumena Marturano” (1951) sempre di Eduardo, in cui il protagonista Domenico Soriano ha uno solo, potente, ricattatorio desiderio: conoscere qual è “suo” figlio dei tre che Filumena gli ha presentato. Ne pedina uno, lo vede alla fermata di un tram e lo segue,con la sua voglia di impossessarsi, carpire l’identità che gli sta a cuore. Domenico vuole sapere con certezza qual è il solo figlio di cui è padre. Ma il tram lo lascia a piedi, con i suoi dubbi.
Favole invece in “Napoletani a Milano”, Eduardo, ricordiamolo, nel 1953 inventa una linea diretta Milano-Napoli-Milano, una “freccia rossa” (?) tra il Nord e il Sud. La prima linea che accorcia, unifica il Paese, dell’Autostrada del Sole che arriverà col miracolo economico, tra anni 50 e 60. Simbolo, metafora, a conclusione di una realtà effettiva, scoperta e vissuta, del tutto opposta. Nella vettura salgono desiderio, attesa, auspicio, di un’Italia che sogna e comunica il bisogno di un’aria diversa, un Paese che risulti migliore. Una utopia? Anzi, un’ utopia, senza interrogativi.
Questi film, questi tram disegnano un ritratto assolutamente particolare nel cinema del dopoguerra, dopo il neorealismo, mentre sta esplodendo la commedia con “Pane, amore e fantasia” (1953) di Luigi Comencini e “Poveri ma belli” (1956) di Dino Risi; e incalza la Hollywood sul Tevere da “Quo Vadis?” (1951) di Mervyn Le Roy a “Ben Hur” (1959) di William Wyler.
Eduardo è tra i pochi autori, forse l’unico, che affronta il tema di essere “italiani in Italia”, napoletani e non, in un cinema che non interroga se stesso su questo versante, anche se lodevolmente coglie il “Riso amaro” (1949) di Giuseppe De Santis, il riso amaro delle mondine; o la disperazione e la morte di ragazze in cerca di lavoro come dattilografe in “Roma ore 11 (1952) , ancora De Santis; o l’odissea degli emigrati clandestini in “Il cammino della speranza” (1950) di Pietro Germi.
Il cinema interviene, prende posizione, denuncia, ma non affronta in modo diretto il vero tema della società italiana, dopo la caduta del fascismo, la sconfitta della seconda guerra mondiale; poi, la Liberazione la proclamazione della Repubblica, la nuova Costituzione.
Ovvero, il tema o meglio i temi di come ricostruire la democrazia, un nuovo senso dello Stato, cancellando quello che per vent’anni era stato autoritario, una dittatura, e aveva cancellando diritti, imponendo la “sua” giustizia fascista.
Eduardo, nel suo teatro e nel suo cinema, ha avuto un “suo” impegno, non necessariamente inteso nel senso comune, cioè come impegno di tipo politico, scelta di partito, scelta ideologica, atto di fede.
Lo ha praticato con continuità, in gran parte del suo cinema ma anche nelle opere buffe da “Sik Sik l’artefice magico” alle commedie a tesi, scritte tra il 1964 e il 1973: “L’arte della commedia”, “Il monumento”, “Il contratto”, “Gli esami non finiscono mai”. Una ricerca continua. In chiave molto personale, cercando il pubblico, cercandolo anche fuori d’Italia, interpretando il mondo che conosceva meglio: Napoli, la città del passato, Borboni e moltitudini, la città delle ipocrisie, del cinismo di sopravvivenza, della scelta dei “napoletani” di creare una “ spettacolarizzazione” per agire e difendersi, tra i poteri chiusi in se stessi e in prerogative senza esenzioni. Trovando le risorse per proporre e convincere. Una lunga storia. Che comincia con Eduardo Scarpetta, padre di Eduardo (e dei fratelli Teresa e Peppino), dalle sue commedie, dal suo teatro.
In queste commedie, da “Miseria e nobiltà” (scritta nel 1888, nel 1954 film di Mario Mattoli) a “Il turco napoletano” (scritta nel 1888, nel 1953 film di Mario Mattoli) alcuni elementi lasciano affiorare in un delizioso magma di piccole audacie e grande divertimento i bersagli di Scarpetta, in un Ottocento che non attende il nuovo secolo vicino e anzi allunga la vita ai personaggi che fanno parte, determinano, la società napoletana e campana, nel lento movimento dalla campagna alla industrializzazione che avanza (come si è detto: il primo treno d’Italia nacque grazie ai borboni).
Sono il “ricco proprietario terriero”; il “nobile” che non si rassegna a decadere e vive del mestiere di “notabile” al servizio del politico e delle sue ambizioni e amicizie; il “giovine aristocratico” o figlio di famiglia ricco che serpeggia nelle feste e nei ritrovi, altezzoso e svenevole; il “guappo” che entra negli ambienti, è prepotente, temuto ma anche preso in giro, come volgare snob.
E’ il patrimonio di “analisi sociale” a cui attinge Eduardo, lo recita o lo trasforma nelle commedie che lo ispirano e gli consegnano una umanità chiusa, egoista, che sceglie collaboratori come il “turco napoletano” per controllare le sue donne, e non si accorge dell’inganno e lo asseconda volentieri come segnale di provvido genio nella tutela dei suoi beni: la “roba” e appunto le “donne”.
E’ un patrimonio di sostanza, poiché consente a Eduardo di aggiornare i vecchi modelli, vederli nel loro mutare per resistere, presentarli come la trama di esistenze, alleanze, solidarietà di censo, intransigenze per ogni forma di cambiamento.
Questi riferimenti sono raccontati da Scarpetta con leggerezza ironica o con accorata visione drammatica sia dei personaggi che degli ambienti che resistono nel tempo, non scompaiono, anzi e continuano a conservare mentalità, tornaconto politico, vedute familistiche e sessuofobiche (per gli altri, per le donne). Il figlio Eduardo registra e sviluppa.
Lo può fare nella commedia “Uomo e galantuomo”, scritta da Eduardo nel 1922 per il fratellastro Vincenzo Scarpetta e più volte ripresa. In primo piano c’è una compagnia di attori poco fortunati che cerca il riscatto nella rappresentazione di un nuovo testo, “Malanova (cattiva notizia)” di Libero Bovio. Le prove sono l’occasione per mostrare sia la scarsa qualità del testo e del suo autore, sia l’incapacità della compagnia in grado di mettere in scena una farsa. Come pure, come controcampo, la scarsa qualità del pubblico (i personaggi-simbolo, i riferimenti riprese e reinventati, secondo il taglio satirico di Scarpetta padre). Prove ridicole, paradossali, insensate amate, un grande equivoco in cui nuotano attori e spettatori, verso un finale di clamorosa comicità. Un mondo che muore di farsa e ci prende gusto.
Eduardo conosce questo mondo e non gli piace, lo propone per farlo esplodere attraverso il trascorre dei tempi dai Borboni ad Achille Lauro, alla politica basata sul voto di scambio, sulle complicità, sulla corruzione che diventa a poco criminalità affaristica. E’ una esplosione narrativa, drammaturgica, che non conosce confini fra teatro, cinema e televisione, persino opera lirica. La analizzeremo.