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Quando serve un “gioco perverso”: scoprire il nero nei telefoni bianchi

Rifare la storia del cinema italiano significa andare verso un cinema più libero

pubblicato 8 Luglio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 12:20

Ho passato tre giorni a Salerno, ospite di una nuova fondazione che ha aperto un cinema-teatro, e ha dedicato uno spazio per proiezioni e spettacolo ad Antonio Ghirelli, scrittore di grande qualità. Tra le prime attività, i tre giorni dedicati a fare il punto sui linguaggi di tutti gli schermi (cine, tv, internet) e di tutti i sonori (radio). Il responsabile della programmazione, Antonio Bottiglieri, ha voluto riservare due dei tre giorni alla proiezione del mio film Gioco perverso e al libro con lo stesso titolo, risalenti al 1991.

E’ stata un’occasione preziosa. A distanza di ventidue anni, con libro e film, un doppio modo di affrontare un tema che oggi rispunta in modo diverso da allora. E cioè: il cinema italiano ha avuto una grande storia col muto (Cabiria che ispirò i colossal di Hollywood), con la produzione di Cinecittà (basti ricordare i film commedia con Vittorio De Sica e i film storici di Alessandro Blasetti), con la breve ma intensa stagione del neorealismo (Roberto Rossellini e Roma città aperta, De Sica con Sciuscià, Luchino Visconti con La terra trema). Consegue la domanda: come è continuata questa storia, che bilancio si può fare?

Naturalmente, metto le mani avanti. A questa domanda non voglio, non posso dare una risposta qui nel nostro blog, la sede deve essere altra e adesso vorrei solo proporre un accenno. Il tema è fitti di temi, e non mancano i contributi seri degli storici non solo universitari. Se mi rifaccio a “Gioco perverso”, un doppio gioco tra libro e film, lo faccio perché le giornate di Salerno mi hanno aperto gli occhi, quegli occhi chiusi-aperti cari a Stanley Kubrick del film Eyes Wide Shut (venuto dopo il mio film, nel 1999).

Vedevo e non vedevo. Adesso vedo meglio. L’argomento del doppio gioco era la vicenda tragica toccata a due divi: Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. Due divi molto amati dal pubblico, protagonisti insieme di opere come “La corona di ferro” e La cena delle beffe, entrambi di Blasetti. Scoprii la vicenda dei due divi fucilati dai partigiani in una strada di Milano dopo la Liberazione del 25 aprile 1945 leggendo i loro nomi citati, di sfuggita, in qualche vecchia rivista di cinema. Stavo lavorando a documentari e a studi sul periodo del fascismo. Decisi di andare a fondo. Feci altre interessanti scoperte di quanto era avvenuto nei film dei cosiddetti “telefoni bianchi”, decine di commedie ispirate ai modelli di Hollywood, inserite nel piani del regime che inneggiava all’impero di Italia e di Etiopia “regalato” con il sangue dei nostri soldati e di quelli etiopici da Mussolini a re Vittorio Emanuele. Una delle linee per la creazione di un consenso tra gli italiani affascinati dall’idea di appartenere e vivere in una potenza capace di farsi notare, fare paura alle grandi potenze (Inghilterra, Francia, America), accodandosi a Hitler e ai suoi fanatismi. Una lunga storia.

Scoprii che quei “telefoni bianchi”, insieme ai cinegiornali Luce e ai film realizzati in chiave di propaganda (“Luciano Serra pilota”, “Scipione l’Africano” e altri) erano forti come riflettori negli occhi degli spettatori; e con la loro luce bianca erano una delle facce dell’epoca, l’altra non era solo il nero delle camicie nere o di tutti i colori della vita militaresca del regime. Mi fermo qui. Libro e film, attraverso le ricerche compiute, mi servirono per capire meglio quel nero che avvolse la vita di Valenti (che smise di fare il cinema e si arruolò nella Decima Mas) e della Ferida (sorda e cieca d’amore); e raccontare come i due “tradirono” il cinema e gli spettatori bersagliati dalla guerra voluta da Mussolini, frequentarono un torturatore di partigiani, “tradirono” anche chi in una Milano spettrale aveva creduto in loro, li aveva amati, non li riconosceva più.

Quando cominciò a circolare la voce che la televisione era intenzionata a fare il film l’opposizione al progetto fu violenta da più parti, e dovetti cambiare i nomi dei due attori (in Vittorio e Olga) per chiarire che da fatti reali intendevo partire per un affresco d’epoca: l’Italia della gente comune “tradita” da un Olimpo che l’aveva sedotto, gente e soprattutto giovani che avevano perso tutto, in molti casi persino la vita.

Fu una grande fatica. Il film fu trasmesso con successo e venne proiettato a Parigi alla Cinematheque Francais, e continuò a circolare. E continua. Insieme al libro che ha avuto diverse edizioni e che è tornato in libreria, rieditato dalla Lindau. La Fondazione Salerno Contemporanea, con la sua iniziativa di tre giorni sulle facce della comunicazione, ha chiamato studiosi (Giorgio Simonelli, Franco Montaleone), e giovani docenti universitari salernitani (Amendola). Ha ripresentato il libro e proiettato il film. Uno specchio d’epoca, una rivendicazione di verità e delle cure che la storia, le storie sollecitano. Affinchè il nero sia meno nascosto dal bianco. Come accade anche oggi. Nella torre di babele dei media.