Racconto di cinema e di futuro con Ennio Flaiano, grande sceneggiatore tra “Otto e ½” e “Giulietta degli Spiriti”
Spiritoso e mordace, Flaiano conobbe Fellini e per molti anni lavorarono insieme, e nel 1964 ebbero un anno di vacanza solo apparente
Nel 1964 Fellini e Flaiano non si presero un anno di vacanza, come sembra se si consulta la loro filmografia che nel 1963 comprende Otto ½ e nel 1965 Giulietta degli Spiriti. Tra una polemica e l’altra fra loro, confronti, gelosie, continuavano a collaborare, dimenticando le ruggini nel loro lungo, produttivo rapporto. Una di queste ebbe origine quando Flaiano si adontò perché l’amico Federico lo aveva tradito con Pier Paolo Pasolini quando gli chiese di scrivere i dialoghi romaneschi in Le notti di Cabiria (1957) con Giulietta Masina. Una ruggine che si sfarinò a poco a poco ma con le resistenze di Flaiano che tra i due era il più debole, come spesso accade agli sceneggiatori al servizio totale (così è) di un astro come Federico.
Proprio questo anno di vuoto, 1964, il suo ricordo, mi ha fatto venire il desiderio di esplorare la personalità e il genio, nonché le peripezie del grande Ennio, con una storia che risale indietro nel tempo. Mi piaceva Flaiano, conoscevo il suo lavoro di giornalista impegnato e di lingua pungente, e per le sue sbandate anche verso il teatro. Tenevo molto a conoscerlo, fin da quando avevo visto La dolce vita in un cinema di Bologna che oggi a distanza di cinquant’anni è un supermercato, grande come una cattedrale, banale come una cucina di formica.
Ero stato colpito, e mi ero commosso, davanti alle immagine del più famoso film di Fellini. Una Roma ancora scolpita nel grand tour della Hollywood sul Tevere e della “Dolce vita”: fiumi di divi negli alberghi di Via Veneto. Quando, sul finire degli anni Sessanta, mi trasferii nella capitale, ebbi fortuna, ero il critico teatrale della rivista Sipario e di settimanali molto diffusi; conobbi Ennio Flaiano dopo la prima di “Un marziano a Roma”, messo in scena da Vittorio Gassman. Ci tenevo a conoscerlo. Era, e, sarà sempre “unico” Flaiano, giornalista, scrittore, sceneggiatore di Fellini e di molti altri registi, famoso e irripetibile per le capacità di produrre fulminanti battute su personaggi, fatti, realtà, il nostro Paese.
Rimane ferma nella storia una sua frase tagliente: “In Italia nulla è più stabile del provvisorio”. Flaiano, una persona e una verificata leggenda. Un laico curioso, con un’anima inquieta, atteggiamenti netti, dolori privati nei retroterra familiari, moralismo che diventa morale, ovvero scelto categoriche, mai compromissorie, convinzioni profonde, soprattutto in politica: non farsi incantare dai vincitori , da intellettuali pronti a mettersi al loro servizio, dalla Roma e dall’Italia poco attenta a costruirsi un futuro, ma disponibile a perpetuare vecchie forme di potere al servizio spesso dei poteri che non si vedono ma operano nella e a contatto della criminalità organizzata.
Quando incontrai Flaiano, lui era reduce dall’insuccesso clamoroso del suo amato “Marziano” (metafora di un abruzzese nella capitale). Inventò una battuta famosa che egli stesso, e molti altri, hanno continuato a ricordare: “L’insuccesso mi ha dato la testa”. Una battuta, una buona, acuta battuta che uso, senza chiedergli il permesso come farò con altre, per il nuovo incontro di cui sto per dire, organizzato nell’etere dei ricordi e delle citazioni che lo proteggono come un’alta siepe di intelligenza e di sensibilità. Se nell’appuntamento di via Veneto, la strada della “Dolce vita” oggi a luci spente, rivangammo la sua densa storia di giornalista impegnato con ironia, sceneggiatore e opinion maker come si direbbe oggi, nel nuovo incontro qui proposto- ripeto immaginario- l’intenzione è diversa. Riassumere con lui, la sua consulenza speciale, l’interesse di sapere, creativamente; e, possibilmente, i giorni in cui stiamo vivendo e vivremo.
Ciak, si gira. Il copione è in parte scritto inconsapevolmente da lui stesso, un testo fondato sulla generosa volontà dello scrittore-e-molto-altro-ancora, di darmi la mano che gli chiedevo: aiutarmi ad integrare la mia conoscenza del suo lavoro e della sua vita, nonostante la lettura di suoi articoli, dei libri, la storia delle sue collaborazioni cinematografiche, e così via. Inoltre, contavo su una delle sue qualità che ho apprezzato da sempre: la chiara capacità di fissare punti precisi e però mai categorici tra passato, presente, futuro (ovvero, il tempo che ci attende).
Per sgelare l’impatto della conversazione, imbarazzato per averlo scomodato, e affascinato , ho ritrovato nella pagine della memoria una serie di aforismi che sono il distillato della sapienza umoristica, e saggia, di Ennio. Lo chiamo per nome e gli do del tu, come già facevamo nei nostri precedenti scambi di idee. Me lo consentì. La leggerezza, questa cercavo, la sua motivata, critica, coinvolgente leggerezza. Mi ero preparato una comoda scaletta, per non approfittare della sua disponibilità e rassicurarlo sulle mie intenzioni gentili, intenzione non alla ricerca di obiezioni o revisioni ad ogni costo. Del resto la realtà di questi giorni, è generosa di temi su confrontarsi. Uno dei temi è senza dubbio la difficoltà delle nostre culture- frange, residue, bocciate in storia e in geografia della globalizzazione- di favorire la comprensione di quel che sta accadendo.
Gli ho posto la prima domanda chiedendo quale elemento secondo lui caratterizza i nostri tempi attuali, purtroppo ancora molto diffusi “tempi di uccidere” (dal titolo di un suo celebre romanzo diventato un film di Giuliano Montaldo nel 1989, un libro scritto nel 1936, dedicato alla guerra colonialista italiana in Etiopia, vinta e tale da convincere Mussolini a presentare al re Vittorio Emanuele la fondazione un breve Impero d’Italia e d’Etiopia). Mi ha risposto: la stupidità.
Trascrivo le sue esatte parole: “La stupidità ha fatto progressi enormi. E’ un sole che non si può guardare fissamente. Grazie ai mezzi di comunicazione, non è più nemmeno la stessa, si nutre di altri miti (rispetto a quando c’ero, mia aggiunta), si vende molto, moltissimo, ha radicalizzato il buon senso, spande il terrore intorno a sé”. Osservazioni che non hanno rughe.
Cominciamo da qui a raccontarci della tv e però anche del cinema. Facciamo titoli, nomi, successi, insuccessi, polemiche. Mi prega, vedendo che sto attivamente prendendo appunti, di rivelare il meno possibile le sue citazioni: “Sono tremendo”- dice. “Me ne sono andato nel 1972 e da allora continuo seduto sulla mia comoda poltrona d nuvola a vedere e leggere quel che posso. Sono un po’ stanco, mi tengo informato, e non voglio spaventare nessuno; del resto, ho sempre rispettato successo e insuccessi, ti ricordo che il mio insuccesso continua a darmi alla testa, non voglio fare il criticone a tempo perso”. Non posso che accogliere la richiesta, gli dico sinceramente che conserverò e non divulgherò gli appunti; lui mi risponde: “Bravo, fai così. Quando ci vedremo, se ci ho ripensato, ti autorizzo. Dipende…” . Lo interrompo, curioso: “Dipende?”.
Mi guarda, cerca una pronta risposta, di cui –ricordo- è stato maestro, e con malizia , da sotto i classici, folti baffi , pronuncia qualcosa che gli sta a cuore: “Le confusioni non mi piacciono e quindi ti rispondo che rischiamo la confusione totale a causa della stupidità a cui ho fatto cenno. Ieri, oggi e domani, ci aggrappiamo, dovrei dire vi aggrappate, a nome collettivi come ‘popolo’, ‘pubblico’ …Un bel giorno ti accorgi che siamo noi, si tratta di noi, e invece credevi che fossero gli altri”.
Flaiano si ferma, mi guarda, attende una reazione. Lo noto. Sembra contento della chiusa “ti accorgi che siamo noi, siamo noi, e invece che fossero gli altri”. Gliene do atto, mi piace quel “noi” che sostituiamo con un “voi” o un “loro”, e ciò troppo spesso ci basta, parole di grande significato e importanza declassate ad un vuoto senza sponde. Un atteggiamento che evita giudizi, coscienza, responsabilità e le pone sotto bandiere generiche, imposte da retoriche che le hanno consumate. Sorride, e incalza. Con un paradosso che apprezzo, togliendosi gli occhiali per pulirli, attacca con forza, con toni polemici : “Non rispondere a inchieste, rifiutare interviste, non firmare manifesti…”.
Adesso sono io che sospendo il fiato e trasmetto un mio silenzioso come e perché. Riprende, felice di stupirmi per lucida decisione: “Tutto viene utilizzato contro di te, in una società che è chiaramente contro l’individuo e favorisce il malgoverno, la malavita, la mafia, la camorra, la partitocrazia che ostacola la ricerca scientifica, la cultura, una sana vita universitaria, dalla burocrazia, dalla polizia, dalla ricerca della menzogna, dalle tribù, dagli stregoni delle tribù, dagli arruffoni…”
E’ un fiume in piena il dolce, mordente Ennio, ascolto, trascrivo : “…dai meridionali scalatori, dai settentrionali discesisti, dalla chiesa, dai servi, dai miserabili, dagli avidi di potere a qualsiasi livello, dai convertiti, dagli invertiti, dai reduci, dai mutilati, dagli studenti bocciati, da pornografi, poligrafi, truffatori, mistificatori, autori ed editori. Bisogna rifiutare, rifiutarsi, enza specificare la ragione del tuo rifiuto, perché anche questa vorrebbe distorta, annessa, utilizzata…”
Ennio,fiume in piena, rallenta, sente che vorrei dire che dal 1972 (aveva 62 anni) ad oggi molte cose sono comunque cambiate e che almeno alcuni suoi giudizi li condivido, altri no, mi paiono un fuoco d’artificio, più scoppi che luci. Sorride ancora, felice. Intuisce la mia reazione, ne è compiaciuto, cerca di mitigare la sua furia, che in gran parte è la mia, insoddisfatto come siamo, sono del momento in cui viviamo nel nostro Paese. Quasi scusandosi, Flaiano mi invita a usare come dovrei la sua raffica di parole: “Ti vedo dall’alto dei mie anni, siamo stati colleghi al settimanale ‘L’Europeo’, ricordi? Io stavo andandomene e tu eri poco più che un ragazzo. Anche tu sai come stanno le cose”. E’ vero. Bene, e quindi? Continua con uno dei suoi più noti aforismi: “Lo sai, lo sai… In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Può capitare anche a me”.
La simpatia ora tra noi scorre, quasi felice. Colgo l’occasione, incalzo con un salto al suggerimento che viene da un ricordo, parole sue, semplici, note, efficaci: “La situazione politica in Italia è grave, ma non è seria”. Le accoglie con il favore che si ha per una propria creatura che ancora funziona, che gli opinionisti riprendono volentieri per la sintesi, la provocazione, lo scioglimento di una tensione che è nell’aria non da oggi. Flaiano annuisce: “Non vorrei che mi si ricordasse solo per questo. Tanti articoli e libri, tanti film, tante belle cose e persone che ho conosciuto. Una vita su cui non mi pronuncio. La valutazione è affidate a voi. A proposito. Ma quanto tempo abbiamo ancora per parlare?”
Guarda la clessidra tra le nuvole. Lascio a lui la risposta alla sua domanda. “Vorrei concludere ricordando cosa ho scritto nel mio libro ‘Diario notturno’ su Dio e spero che tu sappia intendere. Dunque. Dio ci ama (ne abbiamo continue prove); vuole però essere contraccambiato. Io, come scrivo nel libro, se mi decidessi ad amarlo, lo amerei senza chiedergli nulla. Il mio difetto è la generosità, il disinteresse…” Non va oltre, lascia intatti i suoi dubbi, io mi tengo i miei.
“Vuoi che ti rammenti la mia generosità?”, domanda; e procede controllando di nuovo la clessidra: “…solo un episodio, riguarda Fellini, visto che tu ed io ci siamo conosciuti ai tempi dei suoi film e degli scontri che ho avuto con Federico quando fui geloso della fiducia accordata per “Le notti di Cabiria” a Pasolini invece che a me, come avevamo sempre fatto”. “Dimmi”, replico curioso. “L’ho raccontato sempre in “Diario Notturno”. “Già, ma il mio ricordo è sfuocato”, dico desolato. “Meglio. Te la faccio breve. Mi portò da un certo Magus perché costui facesse un tentativo di ottenere una rivelazione: come trovare la moglie scomparsa di un suo amico. Andai, incuriosito, per gratitudine a Federico, amico, mio datore di lavoro. Mi fecero mettere la testa sotto un grande fazzoletto e premere così la testa di Magus, come lui stesso chiedeva per essere stimolato. Successe che dopo qualche istante che la reciproca pressione scaturì la notizia, il prodigio, e cioè che la donna era viva e sarebbe tornata a casa…Vuoi sapere come andò a finire?
Qualche bagliore di memoria mi torna: “Fellini si divertì molto…” “Esatto. Magus era in lacrime, commosso, per essere riuscito; noi ce ne andammo ridendo, quasi rotolando per la scale…Giorni dopo ricevetti la telefonata di Magus che aveva saputo della donna che era stata ritrovata e chiedeva la pubblicazione dell’articolo che gli avevamo promesso come premio. ‘Lo sto scrivendo’, dissi vilmente. E lui, lasciando cadere una pausa di sospiri, carezzevole e incredulo, disse: ‘Ma lei,almeno, mi vuole un po’ di bene?” “Cosa ne hai ricavato?” “Che la morale di una magia povera e ridicola potrebbe essere questa. Cioè che l’irrisione, lo scetticismo sono già compresi nella profezia, e la rendono meno mostruosa”.
A questo punto, ricordo a Ennio una frase di padre Angelo Arpa, gesuita, difensore di Fellini nel periodo delle censure al suo cinema. “Federico quando capiva che non riusciva a comprendere fino in fondo le sue ‘creature’, cercava presso chiunque, tra i maghi, le streghe, gli astrologi, la loro storia, la sofferenza, il loro ‘mondo sconosciuto’”. Ennio, l’ultimo sorriso, l’ultima battuta sapiente. “Se non ti dispiace, concludo citandomi. Peraltro è un mio vecchia tormentone. Questo: ‘gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori’”. Già. Dei vincitori, di sicuro, poco o assai poco dei perdenti, “perdenti” spesso, il più delle volte, non loro colpa; pensai. Ci salutammo. Felici.