Rambo: Last Blood, recensione – il più comico dei Rambo
L’ultima, grottesca battaglia di un John Rambo vendicativo e che non ha granché da dire
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Che dell’immedesimazione con certi suoi personaggi, John Rambo e Rocky Balboa su tutti, Sylvester Stallone ne abbia fatto qualcosa di più di un semplice marchio rispetto ad una carriera più unica che rara, è cosa risaputa. Insomma, non c’è bisogno di altri capitoli per rendersi conto di una verità che da tempo si dà per assodata. C’è allora da chiedersi cosa abbia spinto Sly a tornare su questo profilo iconico, epitome di un cinema che, in quei termini, non esiste nemmeno più. Rambo: Last Blood avrebbe già ottenuto abbastanza qualora fosse riuscito non tanto a giustificare sé stesso, ma almeno a dare un senso del perché, a undici anni da un quarto capitolo di per sé tendenzialmente aleatorio, si sia deciso di tornarci.
È un Rambo da buen retiro quello di Last Blood, che si è scelto un ranch al confine col Messico, costruendosi un reticolato di cunicoli sotto il cospicuo appezzamento di terreno; qui si occupa di cavalli essenzialmente, dopo aver cresciuto e protetto la giovane Gabrielle, oramai in procinto di andare al college. Tappa importante, che segna il distacco definitivo da John, il quale però, pur rendendosi conto di quanto tale approdo sia ineludibile, si mostra riluttante all’idea di non avere più modo di “controllare” la nipote acquisita. Gabrielle tuttavia ha ancora un conto in sospeso col padre, che ha lasciato lei e la madre anni fa per farsi una nuova famiglia in Messico; un’amica ha scoperto dove si trova il genitore e, malgrado le resistenze dello zio John e della zia Maria, Gabrielle decide di passare il confine e andarlo a trovare. Scelta infelice, per dire il meno.
Tocca tornare all’immedesimazione di cui in apertura: uno dei leitmotiv di Rambo è che per lui il Vietnam non è stata una parentesi bensì una condizione esistenziale permanente. L’intera sua parabola si sintetizza in questo tentativo di sfuggire ad una realtà che invece gli appartiene strutturalmente, facendo parte di lui; meccanismo che, manco a dirlo, pure stavolta si ripresenta, implacabile, non importa quali siano di volta in volta le contingenze, chi gli attori. Rambo è sempre solo contro tutti, a combattere la sua guerra, che è appunto, prima di ogni altra cosa, contro quel passato che ciclicamente lo tormenta.
Ad ogni buon conto, non vorrei che queste abbozzate considerazioni di stampo introspettivo, più un tentativo di fornire qualche coordinata che altro, sviassero. Il punto è che non è probabilmente possibile asserire con assoluta certezza quanto Stallone creda che una premessa del genere, che ha funto da motore per oltre trent’anni, sia abbastanza per continuare a battere su una saga che ha detto già tutto parecchio tempo fa. Con Creed, per dirne una, Stallone o chi per lui hanno una buona intuizione, ossia quella di fare leva sul tramonto di una leggenda, svolta in fondo già tentata a partire da Rocky 5, mostrandocelo addirittura in fin di vita praticamente. Quel tipo d’esposizione si rivelò funzionale, contribuendo alla riuscita di un progetto che, a dispetto del titolo, senza Rocky, quel Rocky, non avrebbe pressoché avuto alcun senso.
Ci si rende conto che pugile e soldato rappresentino due profili abbastanza diversi, e che forse l’idea di sperimentare un trattamento simile con Rambo non avrebbe attecchito allo stesso modo. Eppure un film del genere, una volta tanto, potrebbe finire addirittura con l’avallare una dinamica che di solito chi scrive trova infondata, ossia quella per cui l’insistenza mediante sequel/prequel finisca addirittura con l’intaccare la portata dei capitoli che li hanno preceduti. Sia chiaro, i primi Rambo restano lì, e concretamente non vedo come possano essere scalfiti più di tanto. Quando però, praticamente sui titoli di coda di Last Blood, vengono passate in rassegna alcune immagini tratte da tutti e quattro i Rambo, uno tende a pensare, forse addirittura per la prima volta, che certo tenore, contrariante in quest’ultima iterazione, fosse in fin dei conti presente pure in passato; sebbene in misura ben diversa e a fronte di un processo che in larga parte ne sublima certe criticità.
Last Blood è diviso in due parti: la prima consiste nel solito resoconto generazionale, per cui Rambo è oramai un ex-soldato anziano, per lo più arrugginito, che in un mondo così diverso da quello in cui operava un tempo, non può trovare spazio. Da un contesto spiccatamente naturalistico, ambiente ideale per uno come lui, ci s’infila dentro a uno scenario urbano, quasi civilizzato verrebbe da dire, dove Rambo, semplicemente, non può funzionare. L’ambiente è da sempre elemento essenziale nelle varie incarnazioni di questa saga: Rambo infatti non esiste al di fuori del proprio elemento, tanto che l’impressione maturata nel tempo circa un quasi proverbiale «approccio à la Rambo» non ha ragion d’essere se lo s’interpreta come un non avere strategia, un combattere a viso aperto ed in maniera improvvisata.
E qui giunge la seconda parte del film, quella rispetto alla quale la prima si rivela tutt’al più un lungo, ingombrante preambolo. Riuscendo in maniera quasi comica – senz’altro inverosimile, ma di un’improbabilità che suscita ilarità – a “giocare in casa”, trascinando il nemico nel proprio campo di battaglia, Rambo si trasforma, completamente. Riuscendo meticolosamente a programmare a tavolino ogni singola mossa, quell’accenno di gore che fino a qualche sequenza prima si è tutt’al più intravista, diviene elemento trainante, costituendo uno stacco netto, una scissione che quasi recide, non solo spiritualmente, questa seconda metà dalla prima.
È il festival della vendetta, totalmente votato ad un appagamento che per certi versi è persino più violento della stessa violenza grafica alla quale assistiamo. È altresì pure quel momento in cui una certa ingenuità, già manifestata in precedenza, ed in più punti, si fa anch’essa portante, culminando in quell’ultima, liberatoria e non meno esilarante uccisione, a seguito di una mattanza di per sé mica male. E, come sempre, tutto ciò non sarebbe problematico nella misura in cui certe intenzioni non prendessero il sopravvento, se insomma non ci s’industriasse in maniera così maldestra nel verbalizzare quella sorta di seriosità alla quale le premesse ahinoi non sfuggono. Rambo che si dondola sulla sedia appartenuta al padre, spiattellandoci sul grugno questo ponte ideale tra il mondo com’era e quello che è oggi. È così che si vanifica quel tripudio di esplosioni, sangue e smembramenti, evocando ricordi che sarebbe meglio lasciare al proprio posto se proprio non si ha modo di vivificarli.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”3″ layout=”left”]
Rambo – Last Blood (USA, 2019) di Adrian Grunberg. Con Sylvester Stallone, Paz Vega, Louis Mandylor, Óscar Jaenada, Joaquín Cosio, Yvette Monreal, Sheila Shah, Sergio Peris-Mencheta, Jessica Madsen, Adriana Barraza, Nick Wittman, Atanas Srebrev ed Owen Davis. Nelle nostre sale da giovedì 26 settembre 2019.