Rebel Moon – Parte 2: La Sfregiatrice, recensione: un epilogo che non mantiene le buone premesse
Leggi la recensione del secondo capitolo dell’ambiziosa space-opera di Zack Snyder disponibile su Netflix.
Rebel Moon – Parte 2: La Sfregiatrice ha fatto il suo debutto su Netflix, la muscolare e iper-citazionista space-opera di Zack Snyder prosegue l’epica saga di Kora (Sofia Boutella) e dei guerrieri sopravvissuti, pronti a sacrificare tutto combattendo al fianco dei coraggiosi abitanti di Veldt per difendere un villaggio un tempo pacifico dove ha trovato rifugio chi ha perso la propria casa nella guerra contro il Mondo Madre. Alla vigilia della battaglia i guerrieri devono affrontare il proprio passato rivelando uno a uno il motivo per cui combattono. Quando la scure del Regno si abbatte sulla nascente ribellione, si formano legami indissolubili, emergono eroi e nascono nuove leggende.
Rebel Moon Parte 2 – Dove eravamo rimasti…
Zack Snyder porta su Netflix un progetto che aveva cominciato a prendere corpo nei suoi primi anni formativi da regista, poi più recentemente una nuova versione di quella storia nata come concept (“Quella sporca dozzina nello spazio”), è passata per le mani di LucasFilm in cerca di nuove storie per la saga di Star Wars, ma infine respinta.
A questo punto Snyder rielabora il tutto come tributo al suo regista preferito, Akira Kurosawa, e porta “I sette samurai nello spazio”. Un po’ come fece a suo tempo Roger Corman che in veste di produttore e co-regista non accreditato rivisitò il remake western di John Sturges ispirato al film di Kurosawa, realizzando nel 1980 I magnifici sette nello spazio, con un cast che includeva volti nuovi come Richard Thomas (IT, Una famiglia americana) e veterani del calibro di Robert Vaughn (Superman III, Delta Force), John Saxon (i 3 dell’operazione drago, Nightmare) e George Peppard (La caduta delle aquile, A-Team).
Vista la sceneggiatura di ampio respiro e un intero universo creato appositamente per il film, Snyder divide la saga di Kora e i suoi guerrieri in due parti. La prima tranche, “La figlia del fuoco“, mostra un immaginario universale di stampo fantasy proveniente da classici come Star Wars, Excalibur passando per Il Quinto Elemento e cult come il film d’animazione Heavy Metal e i racconti sci-fi. fantasy e steampunk dell’iconico magazine che lo ha ispirato. Snyder di primo acchito dimostra di saper gestire con dovizia cotanto immaginario, e da “fanboy” lo condisce con un’estetica di grande impatto che cattura gli occhi e titilla il cuore di ogni appassionato di fantascienza.
Un “universo” di promesse non mantenute
La seconda parte dal titolo “La sfregiatrice” ci riporta sul pianeta Veldt, dove Kora apprenderà che il malvagio ammiraglio Atticus Noble di Ed Skrein non è morto, ma è stato rigenerato in stile Darth Vader, in quella che sembra la versione dell’Imperium della vasca Bacta di Star Wars. A questo punto il film subisce un’accelerazione poiché dopo una suggestiva parentesi “agreste” con la raccolta del grano, in una ristretta manciata di minuti scopriamo i fugaci retroscena di ogni guerriero reclutato da Kora, in una sorta di confessionale pre-battaglia.
Un escamotage quello dei “flashback” che non permette però a nessun personaggio di creare un minimo sindacale di empatia, di connettersi in qualche modo a livello emotivo . Tra coloro che riescono un minimo a coinvolgere troviamo Nemesis, la guerriera cyborg interpretata dall’attrice sudcoreana Doona Bae, personaggio che permette a Snyder di allestire anche uno strepitoso scontro che omaggia le spade laser dell’iconica “Galassia lontana lontana”, regalando uno dei momenti più coinvolgenti della battaglia finale.
Snyder abbandona di colpo l’universo in cui ci ha accompagnati e che prometteva “viaggi alla scoperta di nuovi mondi e nuove cività…” riportandoci bruscamente coi piedi per terra, relegando l’intero secondo atto al villaggio di Veldt e alla indubbiamente spettacolare battaglia finale. Nel fare questo Snyder replica pedissequamente lo schema dei film di Kurosawa e Sturges, ma anche del più recente remake di Antoine Fuqua con Denzel Washington.
Su schermo l’addestramento degli abitanti del villaggio seguito dallo scontro finale, che in questo caso si amplia mettendo in campo effetti visivi di prim’ordine in una sorta di “Davide contro Golia” decisamente coinvolgente. Il regista rievoca per suggestioni, in scala ridotta e in un mix tecnologico battaglie cinematografiche epiche, vedi quella del Braveheart di Gibson con i clan scozzesi contro i nobili inglesi o la battaglia dei cloni contro i separatisti nella Trilogia Prequel di Star Wars.
Una guerra senza veri eroi
“Rebel Moon – Parte 2: La Sfregiatrice” chiude senza colpo ferire la storia iniziata con il primo film, aprendone una nuova per un potenziale terzo film. Nuovo capitolo in cui Kora potrà concludere il suo percorso di redenzione. Purtroppo le premesse per una space-opera di ampio respiro si perdono in questo secondo capitolo, troppo incentrato sul campo di battaglia, e troppo poco su chi combatte.
Tutte le sfaccettature dei vari personaggi e il loro background abbozzati nella prima parte, qui vengono “smaltiti” in tutta fretta. Le dinamiche tra i personaggi risultano praticamente inesistenti. Il gruppo di combattenti, sia gli abitanti del villaggio che i guerrieri di Kora, non sviluppano un legame credibile; le “confidenze da taverna” con i compagni di battaglia e l’addestramento condiviso con gli abitanti del villaggio non creano relazioni di sorta. L’intera improbabile “truppa” parte come una potenziale famiglia disfunzionale, ma la coesione arriva immediata, quasi salvifica, senza che Snyder possa sfruttare l’elemento “disfunzionale” che ha fatto la fortuna di pellicole come Guardiani della Galassia.
Tutta la parte “emozionale” alla fine è poggiata interamente sulle spalle di tre personaggi che fanno quel che possono per non risultare eccessivamente bidimensionali. C’è la tormentata e introversa Kora di Sofia Boutella, l’altrettanto tormentata cyborg guerriera Nemesis che sfodera un “brutale” istinto materno, e il robot cavaliere senziente Jimmy doppiato in originale da Anthony Hopkins, che ironia della sorte umano non è, ma a cui spetta la migliore battuta: “Mi sono stati dati ricordi di un mondo che non vedrò mai, fedeltà ad un re che non posso servire e amore per una bambina che non ho potuto salvare…”