Ritorno a Seoul: trailer italiano e colonna sonora del film di Davy Chou (Al cinema dall’11 maggio)
Tutto quello che c’è da sapere su “Ritorno a Seoul”, opera seconda del regista franco cambogiano Davy Chou con l’esordio da attrice dell’artista Park Ji-Min – Al cinema dall’11 maggio con I Wonder Pictures
Dopo le tappe a Cannes 75 (selezione ufficiale – Un Certain Regard) e l’anteprima italiana al Torino Film Festival, dall’11 maggio nei cinema italiani con I Wonder Pictures in collaborazione con MUBI Ritorno a Seoul, secondo film del regista franco cambogiano Davy Chou dopo Diamond Island del 2016.
Ritorno a Seoul – Trama e cast
La trama ufficiale: Freddie (Park Ji-Min), 25 anni, impulsiva e testarda, torna in Corea del Sud per la prima volta da quando, appena nata, è stata adottata da una coppia francese. Qui, inizia a cercare i genitori che l’hanno abbandonata. Tra incontri, nuove amicizie e l’ombra di una madre biologica che non vuole farsi rintracciare, la ragazza si trova immersa in una cultura molto diversa dalla sua e intraprende un viaggio nel viaggio che la porterà in direzioni del tutto inaspettate. Per scoprire che forse questa è la vita: incontrare l’inaspettato, cavalcarlo, essere tutte le persone che avresti potuto essere.
Il cast è completato da Oh Kwang-Rok, Guka Han, Kim Sun-Young, Yoann Zimmer, Louis-Do de Lencquesaing, Hur Ouk-Sook, Émeline Briffaud, Lim Cheol-Hyun, Son Seung-Beom, Kim Dong-Seok.
Ritorno a Seoul – Trailer e video
Curiosità sul film
- Il film è una co-produzione Francia / Germania / Belgio / Corea del Sud / Romania / Cambogia / Qatar.
- Il film è basato sulla vita di Laure Badufle, un’amica del regista Davy Chou. Come Freddie, è nata in Corea del Sud, vi è rimasta un anno prima di essere adottata in Francia. All’età di 23 anni, è tornata e ha vissuto lì per due anni prima di tornare in Francia. Qualche anno dopo, Chou l’ha accompagnata in Corea del Sud, dove hanno incontrato il padre e la nonna biologici. Secondo lui, l’incontro è stato pieno di emozioni, di rimpianti e cattiva comunicazione, con il traduttore che faticava a trasmettere la rabbia di Badufle in coreano educato.
- Il film è stato scelto per rappresentare la Cambogia per la categoria “Miglior lungometraggio internazionale” agli Oscar 2023.
- Primo film come attrice della visual artist e scultrice Park Ji-min. Durante la pre-produzione, ha avuto molte domande e critiche riguardo alla sceneggiatura, e ha spinto il regista Davy Chou a identificare alcuni cliché sui ruoli di genere, la seduzione o l’abbigliamento che ha inconsciamente inserito nel personaggio di Freddie. Di conseguenza, il personaggio del film è in gran parte un prodotto di entrambi.
- La storia è ambientata in successione nel 2014, 2016, 2021 e 2022.
- Il titolo provvisorio del film era “Sans retour”.
- Ayumi Roux è stata considerata per la parte di Lucie, la sorella di Freddie.
- Park Ji-min è nata in Corea ma non è stata adottata e ha dichiarato al New York Times, in un’intervista di essere preoccupata di ritrarre legittimamente qualcuno adottato: “La questione di non essere legittimata, l’avevo così, così fortemente dall’inizio e ancora adesso. C’è un’altra attrice nel film, Émeline Briffaud; interpreta [un’amica di Freddie] che è stata adottata nella vita reale. L’ho incontrata due volte prima delle riprese, ed ero davvero, davvero spaventata dei suoi sentimenti. Mi sono sentito così fuori luogo di fronte a lei. Perché lo sto facendo? Non è la mia storia o la mia vita.”.
- L’ultima parte della storia è improvvisamente ambientata (ed è stata girata) in Romania. Questo è significativo, perché come in Corea del Sud, c’è una triste storia di adozioni forzate e bambini senza genitori derivanti dal fallimento delle politiche demografiche comuniste e dai problemi economici dopo la fine del sistema comunista. I figli di nessuno (1994) e altri lungometraggi e documentari trattano già questo argomento, quindi non era più necessario alcun riferimento esplicito. Aggiungendo la sequenza della Romania, i realizzatori hanno ampliato questa storia apparentemente coreana e l’hanno resa più universale.
- Ritorno a Seoul è prodotto da Aurora Films e coprodotto da Vandertastic Films e Frakas Productions. Ritorno a Seoul sarà prossimamente su MUBI.
Intervista al regista
Davy Chou spiega perché hai voluto raccontare questa storia.
Nel 2011 sono andato a presentare il mio primo documentario di lungometraggio, Golden Slumbers, al Busan International Film Festival in Corea del Sud. Una mia amica, Laure Badufle, è venuta con me per mostrarmi quello che definiva “il suo paese”. Laure è nata in Corea del Sud ed è stata adottata in Francia quando aveva un anno. A ventitré anni è tornata per la prima volta nel suo paese di nascita, dove ha trascorso due anni prima di fare nuovamente ritorno in Francia. Prima di partire mi ha avvisato: “Non vedremo il mio padre biologico coreano”. Il loro primo incontro non era stato dei migliori. Ci siamo incontrati a Busan e, dopo due giorni di festival, mi ha detto: “Ho inviato dei messaggi a mio padre. Ci incontreremo a Jinju domani. È a un’ora e mezza da qui. Vuoi venire con me?”. Abbiamo quindi preso un autobus e mi sono ritrovato a pranzo con il suo padre biologico e sua nonna. È stata davvero un’esperienza toccante. Dai loro scambi trapelava un misto di emozioni: tristezza, rancore, incomprensione e rimpianti. C’era anche un qualcosa di tragicomico perché era chiaro che avessero problemi a capirsi. Con noi c’era anche un’interprete che si è trovata palesemente in difficoltà nel tradurre gli scatti d’ira della mia amica e renderli con il grado di cortesia richiesto dall’etichetta coreana. Rimasi così toccato da quell’esperienza che decisi che, magari, un giorno l’avrei trasformata in un film. Dopo l’uscita di Diamond Island, il mio primo lungometraggio di fantasia ho cominciato a pensarci di nuovo. Così ne ho parlato con Laure, e ne è stata entusiasta.
Il film esplora il tema dell’adozione internazionale, ma va ben oltre. Freddie è alla ricerca di sé stessa e si distacca costantemente dalle identità che le vengono attribuite.
A condurmi in questa direzione è stata proprio la storia della mia amica che, tra l’altro, offre terapia a persone adottate e parenti adottivi. A ispirarmi è stata la sua tenacia e imprevedibilità. Mentre scrivevo la sceneggiatura, le ho fatto tantissime domande perché, ovviamente, io non sono nato in Corea del Sud, non sono una donna e non sono stato adottato. Tale distanza mi ha fatto interrogare molto su quanto fosse legittimo, da parte mia, raccontare questa storia. Ma, a un certo punto, le cose sono cambiate e mi sono ritrovato a lavorare a questo progetto. Sono nato in Francia da genitori nati in Cambogia. Sono stato in Cambogia per la prima volta quando avevo venticinque anni. Il mio rapporto con quel paese era simile al rapporto che Freddie ha con la Corea del Sud all’inizio del film. Non immaginavo minimamente che quel ritorno alle radici avrebbe stravolto la comprensione che avevo di me stesso. La vita ci porta a risemantizzare le identità e la nostra relazione con il mondo e con noi stessi. La prospettiva che a me, in quanto regista francese razzializzato, interessava era il percorso intrapreso da una persona che rifiuta continuamente di adattarsi a una classificazione predefinita o al fatto che qualcun altro parli per lei. Freddie passa il tempo a reinventarsi, ridefinirsi e riaffermarsi. È la tematica universale dell’identità. Chi sono? Qual è il mio posto nel mondo? Dove mi colloco rispetto agli altri?
In che misura Park Ji-Min, che interpreta Freddie, ha contribuito a dare forma al suo personaggio?
L’ho conosciuta tramite un amico, Erwan Ha Kyoon Larcher, che è un artista coreano adottato. Parlando del film, il personaggio gli ha fatto venire in mente Park Ji-Min e quindi mi ha messo in contatto con lei, un’artista che produce affascinanti opere di arte plastica. È nata in Corea del Sud ed è arrivata in Francia a otto anni. Volevo ovviamente qualcuno che avesse un legame con la Corea del Sud, e non semplicemente un’attrice dell’Asia orientale, come era stato suggerito all’inizio. Quindi, durante i casting, ho incontrato un bel po’ di persone di origine sudcoreana che erano state adottate. Ho ascoltato quello che avevano da dire e ciò ha apportato molto al film. Ma, quando ho incontrato Park Ji-Min, che non è stata adottata, mi è parsa da subito la scelta più ovvia da fare. Non aveva mai recitato prima ma, in maniera del tutto intuitiva e sorprendente, è riuscita a tirare fuori emozioni intense, passando da una violenza estrema a un’estrema vulnerabilità, tratto necessario per il personaggio di Freddie. Avevo lavorato alla sceneggiatura per tre anni e con lei, che non era un’attrice professionista, mi sono improvvisamente trovato faccia a faccia con l’esperienza di una persona razzializzata cresciuta in Francia. Durante la preparazione del film mi ha messo davvero alle strette. Mi ha fatto tantissime domande e ha persino mosso diverse critiche al canovaccio. Ha messo in discussione il rapporto del personaggio con femminilità, genere e uomini. Tali discussioni, che sono state a tratti anche abbastanza pesanti e si sono protratte per diversi mesi, mi hanno spinto a interrogarmi su me stesso. Mi sono reso conto che la mia posizione di regista uomo mi aveva probabilmente portato a riprodurre alcuni cliché. Io e Ji-Min siamo subito diventati amici e il nostro rapporto, basato sulla fiducia, è stato il fondamento che ci ha permesso di superare quel periodo insieme. Ho capito che era necessario, da parte mia, cambiare prospettiva ed è stata un’esperienza davvero liberatoria. Ho anche capito che avremmo potuto creare solamente insieme, stando allo stesso livello. E il personaggio di Freddie è proprio il frutto di quello sforzo comune.
Chou spiega la scelta di coprire con la storia della protagonista un periodo di otto anni.
Ho sempre trovato commoventi quei film che accompagnano il pubblico nel corso di intere storie di vita. Ogni volta, in ciascuna delle tre parti del film, assistiamo a un momento preciso della vita di Freddie. Questi strati consecutivi di esistenza danno profondità al suo personaggio. Volevo sfidare e resistere all’idea, piuttosto semplice, secondo cui l’obiettivo finale delle persone sta nell’accettazione di sé stesse. Quando si parla di identità e integrazione, ci si trova spesso di fronte a banali trame romanzate nelle quali, con il tocco di una bacchetta magica, i personaggi si trovano improvvisamente in pace con sé stessi. Si potrebbe pensare che, nelle storie che parlano di adozione, l’incontro con i genitori biologici sia l’elemento che permette di rimarginare le ferite. Ma in realtà, a giudicare dai racconti che ho ascoltato, l’incontro tende a essere il momento in cui iniziano tutti i problemi! Se ripenso a tutti i film che ho fatto in precedenza, quest’idea del tempo necessario per trovare la giusta distanza è sempre stata determinante, e penso che ciò abbia a che vedere con la mia storia personale. Nel mio documentario Golden Slumbers ho analizzato l’età dell’oro del cinema cambogiano negli anni ’60, quando mio nonno, che non ho mai conosciuto, lavorava come produttore cinematografico in Cambogia. All’epoca, era già presente questa dissociazione tra un passato molto diverso e l’assoluta mancanza di consapevolezza riguardo quel passato. In Diamond Island ho ripreso giovani di oggi che rincorrono il sogno della modernizzazione ma si comportano come se non ci fosse mai stato alcun genocidio. Forse anche io, in modo totalmente inconscio, mi sono trovato ad affrontare la questione della giusta distanza vissuta anche da Freddie, la quale deve trovarla facendo riferimento alla propria storia personale.
Davy Chou – Note biografiche
Chou è un regista e produttore francese nato nel 1983, che vive tra Parigi e Phnom Penh. È cofondatore della casa di produzione francese Vycky Films e della casa di produzione cambogiana Anti-Archive. Nipote del produttore cambogiano Van Chann, nel 2011, Davy Chou ha diretto “Golden Slumbers” (Forum – Berlinale 2012), un documentario sulla nascita del cinema cambogiano negli anni ’60 e sulla sua brutale distruzione operata dai khmer rossi nel 1975. Ha inoltre diretto diversi cortometraggi tra cui “Cambodia 2099” (Quinzaine des Réalisateurs – Cannes 2014).
Il suo primo film, “Diamond Island”, prodotto da Aurora Films e coprodotto da Anti-Archive e Vandertastic, si è aggiudicato il Premio SACD alla Settimana della Critica – Cannes 2016. Il suo secondo film, “Ritorno a Seoul”, prodotto da Aurora Films e coprodotto da Vandertastic e Frakas Productions, è stato selezionato per Un Certain Regard – Cannes 2022. Parallelamente, Davy Chou prosegue la propria attività di produttore: recentemente, ha infatti prodotto registri cambogiani, tra cui Kavich Neang (“White Building” – Festival del Cinema di Venezia 2021), ed è stato produttore di linea in “Onoda: 10,000 Nights in the Jungle” di Arthur Harari (Un Certain Regard – Cannes 2021).
FILMOGRAFIA
2022 RITORNO A SEOUL | Film, 119’
2016 DIAMOND ISLAND | Film, 100’
2014 CAMBODIA 2099 | Cortometraggio, 21’
2011 GOLDEN SLUMBERS | Documentario di lungometraggio, 96’
2008 EXPIRED | Cortometraggio, 10’
2007 PRIMO FILM DI DAVY CHOU | Cortometraggio, 10’
Ritorno a Seoul – La colonna sonora
- Le musiche originali del film sono dei compositori Jérémie Arcache & Christophe Musse alla loro seconda collaborazione con il regista Davy Chou dopo il dramma Diamond Island (2016).
Il regista Davy Chou spiega cosa viene espresso attraverso la musica del film.
Le diverse lingue – francese, coreano e inglese – si susseguono e ruotano l’una attorno all’altra, e ciò, già di per sé, mostra l’impossibilità di esprimersi a pieno. Si perde sempre qualcosa con la traduzione. La musica compensa ciò che viene ostacolato dal linguaggio. Nella scena in cui balla, Freddie doveva essere totalmente libera, scrollarsi di dosso tutte le emozioni negative e darle alle fiamme. In quel momento, si sente come sbattuta contro un muro in cui tutti vogliono affibbiarle un’identità coreana. Afferma, quindi, la propria identità con pura gioia e con una forza e un’intensità assolute che lei stessa dà in pasto al mondo, come provocazione. In un altro punto del film, il padre biologico di Freddie, interpretato dal magistrale Oh Kwang-Rok che ha spesso recitato nei film di Park Chan-Wood, le fa ascoltare della musica dal suo cellulare. Nella prima parte, percepiamo l’incapacità dell’uomo di comunicare e la sua assoluta assenza di tatto. Freddie, a prescindere da quanto sia giusto o sbagliato, ne è infastidita e mostra la propria rabbia per il modo in cui l’uomo rigetta tutto il suo dolore su di lei. Quando mette questa canzone per lei, è come se stesse esprimendo tutto ciò che non era riuscito a dirle in precedenza. Nel film, la musica è un punto di contatto in cui due persone, che sono separate da una storia violenta e irriconciliabile, riescono – anche se solo per un minuto – a vedersi, comunicare e comprendersi.
1. Freddie (2:55)
2. Mouvement (1:08)
3. Mélancolie (1:35)
4. Anybody (2:45)
5. Dream – Lee Jee Hyang & Cho Young Hae
6. Maxime (0:48)
7. Yeon-Hee (0:53)
8. Ellipse (2:09)
9. All the People You’ll Never Be – Christophe Musset (1:35)
10. All the People You’ll Never Be – Bonus Version – Christophe Musset (1:34)
La colonna sonora di “Ritorno a Seoul” è disponibile su Amazon.