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Roma 2010: il Festival è finito, cosa resta?

Il Festival di Roma 2010 è finito. Non so se in gloria. Ma neanche senza gloria. Piuttosto mi pare che si noti una certa voglia di archiviarlo, con la speranza che vengano meglio organizzate le sue risorse innescate dall’indubbio richiamo sulla città suscitato dal Festival stesso: scelte dei film, qualità delle proiezioni, capacità di mettere

pubblicato 7 Novembre 2010 aggiornato 1 Agosto 2020 18:31

Il Festival di Roma 2010 è finito. Non so se in gloria. Ma neanche senza gloria. Piuttosto mi pare che si noti una certa voglia di archiviarlo, con la speranza che vengano meglio organizzate le sue risorse innescate dall’indubbio richiamo sulla città suscitato dal Festival stesso: scelte dei film, qualità delle proiezioni, capacità di mettere d’accordo le proiezioni con il business (c’è stato, non c’è stato?).

Fare una rassegna di cinema oggi è sempre più difficile. Cannes, Venezia, Berlino, Toronto e altre occasioni dello stesso tipo, più o meno, presidiano il mercato della qualità e degli interessi, non restano che interstizi e colpi di scena. Roma ad esempio ha chiesto aiuto a Bruce Springsteen che non ha fatto concerto- è stato presentato un film doc su di lui, The Promise: the making of Darkness on the edge of town– ma ha sedotto una folla non solo di fans.

Ecco un fatto nuovo. La musica, che concede i suoi spazi giustappunto nell’Auditorium della musica, può essere fonte di sinergie che magari facciano dimenticare le difficoltà delle selezioni e altri disguidi. Il cinema deve imparare che in appuntamenti di massa non può essere più solo. Il cinema non può essere più esclusiva dei cinefili. Il cinema non può più essere nè dei produttori e nè dei distributori.


Bruce Springsteen

Non può più essere nemmeno degli autori, specie quelli che stanno nelle loro tane a covar le solite uova. Il cinema non più essere di un pubblico che scambia il cine per un girone negli inferni delle élite artistiche: letteratura, teatro, musica. Vanno aperte le finestre per fare entrare aria.

Se Bruce è aria buona di un certo tempo fa, è pur sempre l’iceberg di passioni ex giovanili o giovanili che si formano da sole, che inventano e inseguono le loro star, i loro richiami della foresta, la loro forza di fare qualcosa di più che tendenza: fare risultato. Il cinema ha bisogno di esiti alti e non solo di immagini in 3D. Deve rinunciare a fare la grancassa del degrado ideologico (i film in funzione dell’attualità o nei temi consumabili) e acquistare quella autorità in fatto di emozioni che sono state, e saranno, il distillato della sua grande storia.

Oggi si fa un cinema da dimenticare, che è incapace di essere una nuova fonte, che insegue le piccolezze varie che i festival spesso mettono in fila compiaciuti della loro torre nel deserto affollato e fragoroso dei media. Chissà da dove si può cominciare. Ma basta sentire l’attacco solo musicale, e poi canoro, della canzone di Bruce che si è fatta colonna sonora di “Philadelphia”, il film con Tom Hanks, per svegliare il dovere del cinema di andarsi cercare il suo futuro in intrecci vivi, duri a morire, coram populo.

Senza il suo vasto popolo da sedurre, conservare, aumentare, convincere, il cinema è da rigattiere o da scadente facoltà universitaria, due realtà che sono all’incirca la stessa cosa. Bruce come Marlon Brando, Maria Callas, Visconti, Mastroianni, Marilyn… musica per i nostri occhi. Anche in un festival in cui una prestigiosa giuria, presieduta da Sergio Castellitto, ha premiato un film dal titolo inequivocabile: Kill me please.

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