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Rotterdam 2013: Halley – Recensione del film di Sebastián Hofmann

Halley porta in scena uno zombie in sospeso tra la vita e la morte, consapevole della propria condizione. A voi la recensione del film di Sebastián Hofmann

pubblicato 25 Gennaio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 18:15

Dopo il Regno Unito, attraversiamo l’Oceano e fermiamoci al Messico. Qui è stato girato Halley, lavoro criptico e sin troppo raccolto del regista Sebastián Hofmann. In un’imprecisata location ispanica, Beto si trascina come un zombie. Diciamola tutta: Beto è uno zombie. Durante il giorno ha oramai acquisito una certa dimestichezza nel fronteggiare la scomoda situazione, mentre la notte lavora come guardiano presso una palestra aperta ventiquattr’ore su ventiquattro.

Tanti sono i quesiti ascrivibili ad una situazione al limite come questa: può uno zombie riuscire a condurre una doppia vita, per esempio? In realtà l’esistenza di Beto può essere ben sintetizzata con l’immagine di una bomba ad orologeria. Lo sciagurato vive in una sorta di limbo, tremendo, atroce. Il suo corpo va disfacendosi, ma la sua mente è ancora lucida. Al dramma di questa disgrazia viene aggiunto un elemento, che è in fondo una novità: la consapevolezza.

Romero abbozzò un discorso simile ne La terra dei morti viventi, tirandosi dietro critiche più o meno assortite, alimentate dagli scontati schieramenti dei “conservatori” e degli “innovatori”. Tuttavia siamo ben lontani da logiche di quel tipo: qui Hofmann si è spinto davvero oltre. D’altronde il suo pare essere un film meditato, anche troppo. Nessuna istanza, o quasi, avvicina il suo Halley ad un horror.

Lo stesso titolo, come evidenziato altrove, richiama la famosa cometa, quella che appare ciclicamente, per poi dissolversi nel vuoto dello spazio. Un po’ come Beto, insomma. Il suo è un lento, lentissimo incedere, appesantito da alcune misure tecniche senz’altro appropriate ma al tempo stesso soffocanti. Una cospicua serie di sfocature la fanno da padrone per buona parte del film, ad indicare la pesantezza di una condizione che si barcamena sul filo che separa la vita dalla morte.

Sì perché in questo caso l’espressione non-morto non calza affatto; meglio dire non-vivo. Seguiamo ossessivamente la triste routine di Beto, le cui giornate sembrano scriptate, quasi certi meccanismi fossero per lui spontanei come camminare, sedersi, alzarsi. Il suo corpo è in costante fase di decomposizione, anche se il processo lo logora, senza distruggerlo del tutto. Il che è peggio.

Interessante il parallelo con la palestra presso cui lavora, dove vige un benessere rarefatto, ma pur sempre benessere; antitetico al suo stato di putrefazione. Apprezzabile pure qualche rara uscita esilarante, in cui si vira sulla commedia nera. Tolto questo, sinceramente ci pare resti tutt’al più un quasi compiaciuto ermetismo, figlio di quel profondo (di nuovo, troppo) meditare al quale si è sottoposto il regista. Apparentemente incisivo quando affianca il protagonista al suo capo, un’avvenente donna sopra i trenta che cerca in tutti i modi di portarselo a letto (non prima di essersi sbronzata a dovere, ovvio). L’episodio, forte di per sé in un film che genera immagini eccessive in più punti, ci conduce là dove Hofmann ci ha voluto portare, girandoci troppo intorno: «sei una donna sola». Questa è la sentenza-martello di Beto, che liquida l’appetito sessuale di entrambi sancendo che sì, si può soffrire la solitudine anche se in perfetta salute.

Da qui in avanti (siamo già a buon punto in vista della conclusione) Halley letteralmente deraglia. Le curiose tematiche che si dimenano sotto la sua pelle squarciano la pellicola, venendo fuori con una veemenza disarmante, tanto da lasciarci tramortiti. Shock che ci impedisce di apprezzare un finale riguardo al quale ci siamo fatti un’idea, ma che preferisce trincerarsi dietro una svolta ambientale netta piuttosto che lasciare uno spiraglio. Finale propiziato dalla scena più esagerata del film, con una inevitabile amputazione che è apice ed emblema di un’opera per l’appunto monca. A questo punto ad Halley (il film) non resta che venire risucchiato dal vuoto; a differenza dell’omonima cometa, però, senza lasciare scia alcuna. In compenso scompare davvero lentamente, molto lentamente.

Voto di Antonio: 4,5