Rotterdam 2013: Longing for the Rain – Recensione del film di Yang Lina
Longing for the Rain, ossia un ghost movie sensuale che parla cinese. Ecco la nostra recensione da Rotterdam
In una rassegna intrisa di contemporaneità come questa, non poteva certo mancare un’opera che, come fa Longing for the Rain, trattasse in qualche modo la Cina. Paese attorno al quale si raccolgono una miriade di voci, spesso contrastanti, per via della sua apparente stabilità dovuta ad una crescita economica spropositata. Si parte da qui, quindi, da quella fascia ricca della nuova Cina, la quale proprio perché giovane si trova alle prese con problemi a cui l’Occidente ha già dovuto far fronte nel recente passato.
Fang Lei è una moglie attenta e una madre premurosa, a cui non manca praticamente nulla. Tuttavia tale benessere e presunta serenità celano ferite più profonde, un’inquietudine sedimentata, la cui radice resta però metri sottoterra. La totale assenza di consapevolezza riguardo a questo suo malessere interiore, lascia Fang Lei disarmata, preda di qualcosa che non riesce in alcun modo a spiegarsi.
Longing for the Rain si muove con una discreta disinvoltura nel gettare le basi sulle quali edificherà il proprio edificio narrativo. Le turbe che affliggono la protagonista fanno un certo effetto, così come la sua vita parallela, divisa tra realtà e sogno, tra sensi e sensazioni. A questo punto la pellicola è quasi pronta per spiccare il volo.
Ma no, niente di più errato. A dispetto di premesse come minimo incoraggianti, Longing for the Rain resta intrappolato in un labirinto da cui non riesce più ad uscire. Sequenze che non lesinano nudi e scene di sesso, addolcite da alcune soluzioni stilistiche interessanti, un po’ sensuale e un po’ erotico. Ciononostante, senza essere maliziosi, è quasi tenero il tenace tentativo con cui la regista tenta in tutti i modi di rimettere in carreggiata la propria creatura, senza però ahinoi riuscirci.
Peccato perché per la prima metà abbondante il film regge più che dignitosamente, innalzando mura che mettono noi per primi in soggezione, alla luce essenzialmente di certi arditi rimandi. Troppo facile definire questo film una vaga risposta cinese ad Eyes Wide Shut, eppure, pur mancando l’estro con cui fu portato a termine quel massiccio lavoro, inizialmente ci troviamo immersi in circostanze analoghe, quelle di un tradimento non consumato.
Il contesto ricorda parecchio da vicino certe opere di Schnitzler, con quel suo rimestare nelle più disparate tesi freudiane. Così è per un bel po’, fino a quando invece Chunmeng (questo il titolo originale) non esce allo scoperto, mostrandosi per ciò che realmente è, ovverosia una ghost story. I sogni che tormentano e al tempo stesso gratificano Fang Lei hanno un solo capro espiatorio, ossia l’anima di un fantasma che vuole qualcosa da lei.
Fino a qui, in ogni caso, tutto bene. È la fase che segue immediatamente le visite presso sciamani e fattucchiere a scaraventarci per terra. Finché non giungiamo all’insostenibile finale, che in maniera un po’ disordinata tenta di rimescolare le carte e sviarci per un’ultima volta.
Come tutti i Paesi che negli ultimi decenni vanno affacciandosi al mondo, anche quella parte di cinema cinese che cede alla tentazione del confronto con l’attualità deve passare dalla tappa obbligata dei paralleli. Nel caso specifico, quello immancabile tra la Cina che fu, quella che è e quella che vorrà essere. Inevitabile che superstizione, scienza e cultura si mescolino, così come non dovrebbe affatto sorprendere la mancata incisività di certi calderoni.
Apprezzabile il taglio documentaristico conferito all’opera, scelta che ci avvicina ancora di più alla vicenda, ma ciò non risolleva purtroppo le sorti di un progetto ambizioso, del tipo di cui oggi probabilmente c’è comunque bisogno. Buona idea, dunque, vanificata in parte da una realizzazione che non ha proprio resistito dal tirare per le lunghe il proprio di discorso un attimo di troppo.
Voto di Antonio: 5,5