Rotterdam 2013: Watchtower – Recensione del film di Pelin Esmer
Pelin Esmer porta a Rotterdam una storia decisamente delicata, sulla falsa riga del fenomeno Juno. Una giovane ragazza si trasferisce in una zona piuttosto isolata della campagna turca, lasciando il proprio focolare domestico tra le vivaci e immancabili proteste dei genitori. Non che quest’ultimo episodio venga descritto, ma si desume agevolmente.In parallelo, il film segue
Pelin Esmer porta a Rotterdam una storia decisamente delicata, sulla falsa riga del fenomeno Juno. Una giovane ragazza si trasferisce in una zona piuttosto isolata della campagna turca, lasciando il proprio focolare domestico tra le vivaci e immancabili proteste dei genitori. Non che quest’ultimo episodio venga descritto, ma si desume agevolmente.
In parallelo, il film segue anche le vicende di uno strano individuo, misterioso, schivo, che si trasferisce in una baita in completa solitudine. Non si tratta semplicemente di un eremo, bensì di un luogo di lavoro. Quale? Diciamo che è un guardiano. Di una torre, da cui Watchtower.
Mettiamo da parte le circostanze e le motivazioni che condurranno i due ad incontrarsi, sempre se di incontro (strettamente inteso) si può parlare. L’ambientazione ci racconta la solitudine e l’inadeguatezza di questi due personaggi, scaraventati in un contesto alienante, principalmente perché smorto, anonimo come solo una foresta labirintica può essere. Siamo dalle parti di Juno, certo. Tuttavia qui si fatica davvero a scorgere la medesima freschezza riscontrabile nella pellicola di Reitman.
Ce lo siamo chiesti a fine proiezione: cosa manca a Watchtower? Sembrerebbe una domanda ovvia, per certi aspetti addirittura evitabile, ma non è esattamente così che stanno le cose. Perché lo scenario costruito dalla Esmer ha assolutamente un suo perché, nonostante si guardi bene dal proporre qualsivoglia novità. La giovane ha bisogno di soldi perché incinta, ma non essendo sposata né fidanzata non può certo sperare nella benevolenza dei propri genitori, comprensibilmente tradizionali, quindi tutt’altro che favorevoli ad una situazione estrema come questa. E poi Seher (la ragazza) viene da un piccolo centro, dove le notizie corrono più che veloci, così come le mortali sentenze.
Dall’altro lato c’è Nihat (l’uomo che fa il guardiano), un tipo a dire il vero piuttosto losco, apatico. Di lui comprendiamo a stento che l’unico modo che ha per tenersi in contatto col mondo è quello di parlare tramite un walkie-talkie, per di più con l’unico obbligo di dover confermare che tutto fili liscio (cosa?). Insomma, un quadro alquanto singolare visto nel suo insieme, che per lo meno ci spinge a chiederci cosa c’entrino questi due profili fra di loro.
Ci vuole poco a realizzare che entrambi si trascino d’appresso un gravoso fardello, ma ancora l’attenzione è desta. Finché non arriva il momento, quello in cui la trama deve necessariamente dipanarsi con meno riserbo. Da qui in poi la pellicola comincia inesorabilmente a cedere, decomponendosi progressivamente, pezzo dopo pezzo. Perplime il rocambolesco episodio con cui Seher affronta l’epilogo di quel percorso che l’ha condotta al punto in cui si trova, così come non convincono pressoché tutte le scene successive.
In realtà non è che gli sviluppi della vicenda non funzionino affatto; è che questa frettolosità nel liquidare il momento chiave della svolta dà l’impressione di una scossa a seguito della quale il film rimane tramortito una volta per tutte. Il personaggio di Nihat, circondato da quell’intrigante alone di ambiguità, perde qualsivoglia incisività già prima di manifestare il proprio retaggio. Per il resto Watchtower risulta un discreto lavoro, limitato però da una narrazione troppo didascalica, che dopo un po’ si sgonfia senza trasmettere più nulla.
Ciò che ne viene fuori è una storia essenzialmente piatta, tenuta in vita per appena metà film, affetta dall’incapacità di penetrare i due pesanti drammi, quello della giovane e quello dell’enigmatico guardiano. Peccato perché le premesse inducevano a credere (ma a questo punto sarebbe meglio dire sperare) in qualcosa di più. Ed invece bisogna prendere atto di un lavoro non pessimo, ma comunque debole. E a dire il vero un po’ ci spiace pure.
Voto di Antonio: 5