Salvatore Giuliano: la mafia di Francesco Rosi torna al cinema restaurata
Recensione e curiosità del film-inchiesta di Francesco Rosi su Salvatore Giuliano e lo stato di mafia, al cinema restaurato in prima visione
La recente scomparsa di Francesco Rosi continua a nutrire gli ingranaggi della memoria, orfana del realismo illuminato con il quale, questo grande maestro del cinema contemporaneo, continua a farci riflettere sulle contraddizioni del nostro tempo e del nostro paese.
Il cineasta italiano che la 65ma edizione del Festival di Berlino ricorda e omaggia riportando sul grande schermo le follie della guerra di “Uomini Contro” (1970), dopo aver assegnato l’Orso d’Argento a “Salvatore Giuliano” nel 1962 e l’Orso d’Oro alla carriera nel 2008.
Lo stesso Salvatore Giuliano (1962) che segna la filmografia di Rosi e la storia del cinema civile e politico, con un approccio innovativo a realtà scomode come gli ingranaggi del potere mafioso che, lo stesso successo di pubblico e critica riscosso dal film, contribuirà a ‘illuminare’ favorendo la nascita della Commissione Nazionale d’Inchiesta sulla mafia.
Il Salvatore Giuliano che il progetto di Cinema Ritrovato riporta in sala in versione restaurata, insieme a ‘Le mani sulla città’ (1963), consentendoci di apprezzare il valore documentale di un film-inchiesta che resiste a più di mezzo secolo di storia e realtà.
La realtà oggettiva di figure e dinamiche controverse, portata sul grande schermo ricorrendo ad interviste, inchieste, articoli di giornale e una minuziosa ricostruzione di tesi, incertezze, ipotesi e intrecci di un mistero mai risolto, come la morte del bandito Giuliano, sulla quale è posto il Segreto di Stato fino al 2016.
“Di sicuro c’è che è morto” scriveva il giornalista Tommaso Besozzi sull’Europeo il 16 Luglio 1950, tra le fonti di ispirazioni e i frammenti di realtà usati dalla narrazione filmica che torna sui luoghi dei fatti con un cast di siciliani locali, in perfetto equilibrio con quello dei professionisti e non punta mai la macchina direttamente sull’inafferrabile fuorilegge, interpretato da un tranviere palermitano, quanto sul mito popolare dell’eroe rivoluzionario utile a strumentalizzazioni simboliche.
Questo film è stato girato in Sicilia. A Montelepre, dove Salvatore Giuliano è nato. Nelle case, nelle strade, sulle montagne dove regnò per sette anni. A Castelvetrano, nella casa dove il bandito trascorse gli ultimi mesi della sua esistenza e nel cortile dove una mattina fu visto il suo corpo senza vita.
Il corpo crivellato, vestito di sole e fatti nel cortile, quello spogliato di tutto e ricoperto di baci materni, esposto all’obitorio come il Cristo Morto di Mantegna, “pietas” cristiana e pedina di scambio utile ai giochi di politica e giustizia.
Il corpo che segue l’incipit con l’inquadratura dall’alto e il film-inchiesta di Rosi con la ricostruzione delle circostanze della morte di Giuliano, per inquadrare la realtà siciliana del dopoguerra. Quella Sicilia 1943-60 del titolo di lavorazione.
Il film che mostra la realtà per lasciar emergere la complessa trama di relazioni tra cittadini, funzionari, mafia e governo che l’ha generata, come a fatto con quell’Italia dei misteri non risolti, figlia di un certo potere politico colluso con la mafia.
“Nel 1960 volli affrontare un discorso sul cadavere di un giovane bandito diventato il nemico dello Stato italiano, morto dieci anni prima in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine secondo la versione ufficiale, in verità ucciso a tradimento per opera della mafia e consegnato morto allo Stato nel quadro della collusione tra il potere politico, quello delle istituzioni e quello della mafia. Nacque così Salvatore Giuliano. Mi affidai all’intuizione che avevo maturato in Sicilia, che solo a condizione di ricostruire gli avvenimenti nei luoghi dove erano realmente accaduti, e con la partecipazione della gente che li aveva vissuti solo pochi anni prima, mi sarei sentito capace di tentare, e che sarebbe stato ‘morale’ tentare in quella maniera: ‘morale, in quanto una operazione del genere comporta un alto senso della responsabilità nei confronti di fatti e uomini realmente vissuti. Il film, più che raccontare l’uomo Giuliano, si propose la conoscenza di un momento storico della vita del nostro Paese, che aveva visto la Sicilia coinvolta in un progetto separatista politico e militare; si preoccupò di far conoscere meglio Sicilia e siciliani, ricchi di storia e cultura, ma non sempre facili da conoscere e capire; e di presentare la mafia al di là di ogni tentazione pittoresca, nella sua realtà di potere criminale, economico e politico internazionale, reso forte dalla violenza e dal ricatto della morte, ma più ancora dalle connivenze e dalle complicità con politica e istituzioni corrotte, e dalla ‘tolleranza’, ineffabilmente ammessa da alcuni responsabili, che il potere esercitava nei suoi confronti. Là dove la tolleranza, pur non essendo in se stessa un crimine, lo costituiva.” – Francesco Rosi
Un capolavoro che sussurra e grida una realtà scomoda, restando poeticamente attaccato alle storie di Sicilia, con la complicità di una scrittura innovativa portata a compimento con Suso Cecchi D’Amico, Enzo Provenzale e Franco Solinas, una struttura temporale che viaggia in 17 anni con flashback concepiti per seguire i complessi intrecci di causa-effetto tra gli avvenimenti, e ben 3 toni di bianco e nero per la sorprendente fotografia di Gianni di Venanzo.
Il tono sovraesposto da servizio fotografico per la morte di Giuliano, il forte contrasto chiaro-scuro per le sequenze retrospettive e sfumature di grigio televisivo per il processo di Viterbo.
La colonna sonora da Nastro d’Argento di Piero Piccioni pulsa con le emozioni lasciate a chi stende lo sguardo sul campo lungo che inquadra la carneficina di Portella della Ginestra e le fucilate che accompagnano la prima strage politica del nostro paese, insieme alla tendenza di lasciare i misteri irrisolti.
Una realtà indigesta portata a compimento nelle sequenze del processo, con la complicità del lapidario ‘La Legge è uguale per tutti’ e dell’arringa finale nutrita da “giustizia” corrotta e omertà, sino all’ultimo veleno bevuto in carcere con il caffè di Gaspare Pisciotto che lascia come alternativa solo la menzogna, alla Sicilia accecata dal sole e le ombre di interessi politici e mafiosi.
“Come era facile prevedere, il film di Francesco Rosi sulla vita di Salvatore Giuliano ha incontrato seri ostacoli in censura. La commissione ministeriale incaricata di concedere o di negare il visto avrebbe infatti lasciato scadere i termini previsti dalla legge, senza pronunciarsi in merito”. Luigi Biamonte, ”Giuliano’ bloccato in censura’, in Il paese, 5 gennaio 1962
Un film che ha superato la censura dei tempi, ma a quanto pare non la realtà che mostra e documenta, quanto la riflessione che offre e a giudicare dagli ultimi fatti di mafia, farebbe un gran bene a parecchi tornare a vedere.
Voto di Cut-tv’s: 10
Salvatore Giuliano (Italia, 1962) di Francesco Rosi, con Frank Wolff (Gaspare Pisciotta), Salvo Randone (presidente della Corte), Federico Zardi (avvocato di Pisciotta), Pietro Cammarata (Salvatore Giuliano), Giuseppe Tei (giovane pastore), Cosimo Torino (Frank Mannino), Giuseppe Calandra (sottufficiale dei carabinieri), Renato Pinciroli (Pinciroli), Max Cartier (Francesco), Fernando Cicero (un bandito). Di nuovo in sala restaurato, in prima visione con il progetto Il Cinema Ritrovato. Al cinema, dal 9 febbraio 2015.
Il restauro
Il restauro digitale è stato eseguito a partire dal negativo camera originale e scansionato alla risoluzione di 4K. Per riportare in vita lo splendore originale del film, la correzione digitale del colore è stata effettuata con cura particolare usando come riferimento una copia d’epoca. In questa fase è stato fondamentale il contributo di Francesco Rosi. Il suono originale è stato sottoposto a restauro digitale usando la colonna ottica 35mm originale. Alcune parti erano gravemente afflitte da sindrome dell’aceto: per queste sezioni è stata usata anche una copia positiva. Il restauro è stato completato nel maggio del 2013.
Restaurato da Fondazione Cineteca di Bologna presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata, in associazione con The Film Foundation. Con il contributo di Hollywood Foreign Press Association e The Film Foundation. Un ringraziamento speciale a Francesco Rosi e a Cristaldi Film.
Curiosità
Ancora oggi la figura di Salvatore Giuliano è controversa quando la dinamica della sulla morte, a quanto pare avvenuta realtà per mano del suo ‘vice’ Gaspare Pisciotta, visto che ne esistono ben cinque differenti versioni.
“Di sicuro c’è che è morto” è stato il titolo di un articolo del giornalista Tommaso Besozzi apparso sull’Europeo il 16 Luglio 1950, riferito all’omicidio di Salvatore Giuliano.
Le riprese del film si svolsero negli stessi luoghi dove erano avvenuti i fatti raccontati (da Montelepre, Castelvetrano, Portella della Ginestra), utilizzando soprattutto attori non professionisti trovati tra la gente del luogo, come lo stesso bandito Giuliano, interpretato dal tranviere palermitano Pietro Cammarata, ripreso sempre di spalle o in lontananza.
Il film è stato prodotto da Galatea Film, Lux Film, Vides Cinematografica.
Il titolo originale del film, apposto sulla sceneggiatura e leggibile sul ciak durante la lavorazione, era “Sicilia 1943 – ’60”. A conferma dell’intenzione del regista di utilizzare la vicenda del noto fuorilegge solo come pretesto per scavare in bel altra realtà.
“Venditore d’acqua Siciliano (a un giornalista): Lei di dov’è?
Giornalista: Di Roma!
Venditore d’acqua: E che ne vuole sapere lei della Sicilia!”
Il film esce nel 1961, con una censura politica che ne vieta la visione ai minori di 16 anni, mentre sulla morte di Giuliano è posto il Segreto di Stato fino all’anno 2016.
Il film, arrivato per la prima volta nelle sale italiane il 28 Febbraio 1962, nella stagione 1961-62 la pellicola incassò 737.084.000 milioni di lire dell’epoca, scalando il decimo posto nella classifica dei film italiani di maggior successo.
“Nel 1962 il film era stato eliminato a Cannes per ragioni oscure, pur avendo tutte le chance di vincere il Grand Prix al posto del brasiliano La parola data.” (Georges Sadoul, 1962)
Presentato in concorso al Festival di Berlino 1962, vinse l’Orso d’argento per il miglior regista e tre Nastri d’argento, per il film (ex aequo con Le quattro giornate di Napoli), la fotografia e la musica di Piero Piccioni, insieme alla Grolla d’oro nel 1962 per la regia, il Premio San Fedele nel 1962 per il cinema, e il Globo d’oro nel 1963 per il Miglior film.
Il film è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare
Dopo i “I fuorilegge” (1949) di Aldo Vergano con Vittorio Gassman e “Salvatore Giuliano” (1962), l’argomento è tornato sul grande schermo con “Il caso Pisciotta” di Eriprando Visconti e Salvo Randone nel cast, “Il siciliano” (1986) di Michael Cimino con Christopher Lambert nei panni di Giuliano; i “Segreti di stato” (2003) di Paolo Benvenuti incentrato più sulla strage di Portella della Ginestra, ma lasciando volutamente da parte la trasposizione pornografica del “Don Salvatore – L’ultimo siciliano” (1995) di Joe D’Amato, è il film di Francesco Rosi a restare un modello di riferimento per generazioni di registi che aspirano a realizzare un film-inchiesta.
Colonna Sonora
La colonna sonora del film, opera del prolifico e sempre notevole Piero Piccioni, ha conquistato il Nastro d’argento.
“Per Salvatore Giuliano (1961) quelle note essenziali che sottolineano alcuni rari momenti del film e che sembrano evocate dalle immagini come una necessità, non come un commento, sono il frutto della creatività tutta personale di Piero, ma anche della sua intelligenza nel non nascondere le emozioni che avevano accompagnato il processo creativo del mio film.”
Francesco Rosi
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