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Science+Fiction 2011: incontro coi Manetti Bros., a Trieste per presentare L’arrivo di Wang

I Manetti Bros. ci raccontano il loro ultimo lavoro, il fantascientifico L’arrivo di Wang

pubblicato 13 Novembre 2011 aggiornato 1 Agosto 2020 06:40


Con la consueta travolgente “romanità” che li contraddistingue, Marco e Antonio Manetti, meglio conosciuti come i Manetti Bros., sono sbarcati a Trieste per presentare al Science+Fiction il loro ultimo lavoro, ovvero L’arrivo di Wang. Passato in anteprima alla Mostra del cinema di Venezia nella sezione Controcampo italiano, il film si è svelato anche al pubblico triestino prima che esca prossimamente nelle sale. La stampa ha incontrato i due registi per parlare proprio di questo nuovo lavoro…

Ne L’arrivo di Wang abbiamo un alieno che parla il cinese, visto che ha l’informazione che è la lingua più parlata del mondo. Ma presto capisce che la cosa non funziona, visto che la parlano solo in Cina. Possiamo dire che quindi è un film sulla comunicazione?
Marco: assolutamente sì. Ma rispetto alla comunicazione narrata dai Bergman, Antonioni e Pirandello, questa è un’opera meno psicanalitica e il discorso è più culturale: è un film sulla difficoltà di comunicare oggi nella vita sociale. La difficoltà di comunicare la troviamo nella figura dell’alieno che parla solo cinese, ma anche tra i due protagonisti, Gaia, la traduttrice simultanea, e Curti che conduce l’interrogatorio. Tra le cose che volevamo raccontare c’è l’idea della difficoltà di comunicare tra persone che hanno idee diverse. Si vedano i politici che hanno o torto o ragione, e che in realtà non si parlano! Il film tratta della mancata comunicazione tra idee diverse, piuttosto dell’incomunicabilità.

C’è una parte del film al buio, la prima: com’è stata gestita? A suo modo è un azzardo…
Marco: il film parla dei servizi segreti italiani che trovano un alieno nascosto in una casa e che parla solo cinese, e per questo devono chiamare un’interprete simultanea. L’interrogatorio però è all’inizio segretissimo, quindi inizia al buio perché la ragazza non deve sapere che l’interlocutore è un alieno. Solo che lei non riesce a tradurre bene perché certe frasi che dice l’alieno non le capisce bene e non le contestualizza; ha bisogno di sapere chi ha davanti per poter fare bene il suo lavoro. Questa situazione va avanti per una ventina di minuti. Il buio ha quindi una funzione non estetica ma narrativa, visto anche che la traduttrice è un po’ il nostro sguardo, e con lei scopriamo che chi c’è di fronte è un alieno.

Il cinema tenta di rappresentare l’iconografia dell’alieno da quando è nato: quali sono state le vostre scelte a riguardo?
Antonio: abbiamo lavorato per rendere visivamente l’alieno con Maurizio Memoli, un ragazzo della Weta Digital che ha lavorato anche ad Avatar. Per noi all’inizio, in fase di sceneggiatura, doveva essere una creatura schifosa. Poi abbiamo chiesto a Maurizio un’altra cosa: che ispirasse anche tenerezza, in quanto il pubblico doveva anche un po’ volergli bene.
Marco: il nostro lavoro è essenzialmente d’èquipe. Noi abbiamo le nostre esigenze, che sono al 90% narrative. Maurizio ha ubbidito a queste esigenze, ma ci ha messo giustamente anche un certo suo gusto. Sicuramente mentre scrivevamo il film l’idea dell’alieno era diversa.

Quanti produttori avete contattato per fare il film?
Marco: abbiamo contattato solo due produttori. Ovvero ci siamo visti allo specchio: l’abbiamo prodotto noi! In Italia un film di fantascienza non riesci a farlo, nessun produttore ci avrebbe dato retta. Abbiamo messo assieme un budget, certo esiguo, grazie ad un insieme di finanziatori che si sono basati essenzialmente sul nostro nome.
Antonio: abbiamo fatto leggere la sceneggiatura ai nostri finanziatori e la storia è effettivamente piaciuta: hanno visto oltre in quanto si tratta di un progetto coraggioso, hanno tenuto conto dei personaggi, della storia e del fatto che ci parla di un mondo reale, che esiste davvero: il nostro.
Marco: alla Mostra di Venezia abbiamo vinto il premio del Consolato Generale Britannico di Milano, il premio “Best Innovative Budget”, per un film che riusciva ad utilizzare il suo budget in maniera originale: noi abbiamo esattamente fatto così. Abbiamo trovato un modo coraggioso, forse un po’ francescano, di trovare un piccolo budget, una piccola somma di soldi grazie a piccoli investitori per un film che in partenza non era pensato per essere un grande successo.

Abbiamo visto in concorso qui al Science+Fiction un film indipendente americano, Stake Land, costato grosso modo 600000 dollari. Quanto avete speso voi per il vostro? E se aveste il budget di un Abrams che fareste?
Marco: parto con una risposta omertosa. Non è che non voglio rispondere, potrei dire il budget, ma non voglio. Perché alla fine si finisce sempre per parlare dei nostri budget: ogni volta che diciamo la cifra si parla solo di quello. Fare un film a basso budget comporta delle rinunce, ma non è detto che fare un film ad alto budget non lo comporti. Ti tocca rinunciare a molto con 200 milioni. Visto che i produttori hanno investito tanto, vogliono di conseguenza certe cose. Se pensi ad Atto di forza, il protagonista a raccontarlo non lo penseresti forse come Arnold Schwarzenegger, ma ti viene in mente un personaggio esile, magro…
Antonio: abbiamo aperto la nostra casa di produzione e ci siamo resi conto che l’indipendenza ti dà molta ricchezza. Tutti i giorni avevamo più tempo per lavorare, essendo prodotto da noi.
Marco: se avessimo un budget come quello dei film di Abrams? La vera differenza è che saremmo più ricchi. Anche perché spenderemmo meno di Abrams, in modo diverso, e faremmo più film!

Un film di fantascienza a testa, il vostro preferito.
Antonio: Guerre Stellari.
Marco: amando anche l’horror, dico Alien.

Qual è il vostro primo ricordo a tinte horror della vostra vita? Non per forza cinematografico…
Antonio: siamo stati sempre appassionati di horror. Il primo ricordo che mi viene in mente è la visione di Profondo Rosso al cinema. Ma da piccolo guardavo spesso anche Frankenstein Junior, e aveva delle scene che mi spaventavano! Poi facevamo le solite cose che fanno i bambini, come andare al cimitero di sera, queste cose qua. L’horror è bello perché porta emozioni che senti per davvero.
Marco: un mio ricordo è quando a Roma davano L’Esorcista. Non avevo ancora 14 anni, ma questi film si potevano vedere se accompagnati dai genitori. Mia mamma mi portò, perché l’aveva già visto e mi aveva detto che dovevo assolutamente vederlo, che era terrorizzante… Mi ricordo che siamo arrivati davanti al cinema, dove c’erano tutte le foto promozionali del film: e non ho voluto entare a vedere il film, perché nella mia mente mi aveva già terrorizzato troppo. Quando poi anni dopo l’ho visto, anche se lo ritengo un enorme capolavoro, non mi ha fatto per niente paura. Anzi, un po’ ho riso. Mi aspettavo il film più spaventoso della storia. Poi la ragazzina dice cose che a noi romani in particolare fanno molto ridere…! Forse però l’attesa nel vederlo ha mantenuto viva in me la fascinazione per l’horror. In più direi che la paura non è negativa: avere paura e far paura è bellissimo, e questo la dice lunga sul ruolo dell’horror. Non esistono persone più perbene che gli appassionati di horror. Basta vedere George Romero, un mostro sacro che però è disponibilissimo verso gli altri. La funzione dell’horror è quella di funzionare come una vera e propria valvola di sfogo.