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Senza il migliore, “Non essere cattivo”, chi vincerà?

Il film di Caligari aveva tutte le qualità per un grande premio, forse persino l’aulico e solenne Leone d’oro, che da qualche tempo vola basso

pubblicato 11 Settembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 12:50

In una giuria collaterale, in cui ero coinvolto, il film di Claudio Caligari “Non essere cattivo” si è aggiudicato il maggior numero di voti e ha vinto come si dice nel pugilato a mani basse. Non so immaginare cosa succederà nella giuria importante, ufficiale, ufficialissima, guidata da Alfonso Cuarón, visionario regista. Quali visioni potrà suscitare o coordinare?

Se io fossi tra i suoi collaboratori, gli regalerei il mio pensiero spassionato. Consiglierei con tutte le mie forze a lui e ai colleghi della importante giuria di avere molto spirito e di scegliere il francese “Marguerite” di Havier Giannoli. L’ho scritto su Cineblog: è un film intelligente, prezioso e spontaneo dono ai giurati; esce dalla palude di un cinema che non sa dove andare, poichè i temi sociali, politici, ideologici nella vita del mondo sono così numerosi, intensi, frastornanti che la pellicola pur con le tecniche di cattura più sofisticate non sa “cosa”o meglio non può nè catturare nè sviluppare, se non proponendo i più vieti luoghi comuni. La Mostra non ha nulla da guadagnare dall’inserirsi nel coro delle televisioni che con l’attualità, gli approfondimenti, le fiction mangiano di tutto, non restano in tavola neanche le briciole.

“Marguerite”, in questo senso, garantisce il grande spettacolo della illusione permanente che è la dannazione del cinema d’oggi e della comunicazione. L’illusione di esistere. Il cinema esiste? Certo, eccolo qua a Venezia, o in altri festival, c’è e cerca di mettere in scena un certo arcobaleno di film, presentare selezioni alte, abbondanti, significative; ma non è così, ci riesce sempre meno, e a fatica.

I veri, buoni film sono sempre meno, la produzione vuole gli incassi e mette in scena un entertainment smodato: Sborsa pochi spiccioli per gli autori meritevoli e ancora meno per i giovani più promettenti. Li illude, questi ragazzi che vengono allevati per essere vecchi, specie in Italia, e li abbandona. Una questione gravissima che nessuno solleva, tanto chi se ne frega? Le Mostre si fanno e si allineano a una sorta di parassitismo istituzionale. Cercano, hanno buone idee, vogliono aiutare i giovani con apposite iniziative, a volte iniziative troppo pie. Baratta e Barbera sono bravi, bravissimi, prigionieri di una situazione che aspetta non da loro soluzioni illuminanti, soluzioni che non si vedono. Ma torniamo a “Marguerite” il mio candidato al Leone d’oro. Ci sarà nella giuria il coraggio necessario per premiarlo?

“Marguerite” canta la paradossale storia di una ricca signora che è stonata oltre ogni limite; ma, siccome è ricca, nobile, e ha sposato un uomo diventato illustre a spese della moglie, ottiene successi, eseguendo le sue ostinate, gorgheggianti stonature davanti a gente altolocata, ricordando i caduti in guerra e loro orfani, e altre iniziative di solidarietà e di apprezzamento civile. Un quadro che sembra rimandare a quello del cinema oggi: signora dal passato memorabile, ambiziosa, generosa con se stessa e gli adepti lusingati con malia e regali d’arte.

Un quadro non di un’impostura- i film buoni ci sono ancora, ce ne sono stati anche alla Mostra ‘72- ma di un equivoco permanente, a causa di virtù tenute su con gli spilli. Basta riflettere anche solo un attimo sull’interesse e l’amore che suscitano Orson Welles (nella grande e bella apertura di questa Mostra) e tanti altri maestri del cinema, che ci rifanno gli occhi anche adesso. Personaggi così vivono solo in un humus di talenti e di sostenitori, di influenze, rivalità, scambi, idee, pensieri, stimoli… Oggi l’humus è sparso, sfiatato, parassitario, non esiste, credendo di esistere.

“Marguerite” è ben fatto, veloce, spiritoso, persino leggiadro, ben scritto e ben interpretato, oltre ad avere il significato nello stesso tempo concreto e metaforico riguardo all’ansimante esistenza del cinema. Non è un caso che il film di Giannoli è ambientato negli anni Venti-Trenta, l’epoca di Hollywood, Cinecittà e di tanti altri studi in America e in Europa. Una clamorosa, gloriosa, potente, storia che ci piacetebbe veder vivere.

E’ la sola alternativa a “Non essere cattivo”, che ha difettucci nel finale (volutamente forzato verso la commozione) ma è nel complesso geniale, forte, consapevole, è opera di un importante regista di pochi film ma buoni, che è stato insofferente per la condizione dell’autore oggi soprattutto in Italia, e con questo film conferma di essere conoscitore di tunnel bui, tristi e malfamati; sognatore intenso doloroso ironico di una disperata vitalità non solo pasoliniana.

Festival di Venezia