Simone, Carmelo, Alberto: il cinema, centro (quasi) di tutto
Con la morte avvenuta in questi giorno di Simone Carella, artista, teatrante, innamorato cotto del cinema e delle immagini, sta tornando diffusamente la “storia” e la “cronaca” delle avanguardie dagli anni Sessanta alle soglie del Duemila
Il cinema, il teatro, le avanguardie. Il cinema strada maestra, inconsapevolmente. Convertirsi al cinema e convertirlo. Una fusione impossibile ma tentativi di rilievo, voglie, desideri, orizzonti. Carmelo Bene ci provava sulla scena con i classici a cui si ispirava a far da motore; non solo, anche i suoi testi o testi di ogni tempo. Alberto Grifi era un creativo di tutto speciale. figlio di un documentarista e cartellonista per il cinema, apprese un notevole bagaglio di conoscenze tecniche, nonché l’abilità artigianale di inventare e costruire apparecchiature e obiettivi. Nella prima degli anni Sessanta collaborò alla realizzazione di una serie di documentari, lavorando con Vito Pandolfi e Folco Quilici; fece cinema col pittore Gianfranco Baruchello; seguì i movimenti giovanili con “Parco Lambro “ (1976) e fece “Anna”, un film che doveva apparire come un documentario ed era è una fiction profonda come poche volte capita d vedere.
Carmelo fu l’unico nelle avanguardie, a fare del cinema vero e proprio. Con “Nostra Signora dei Turchi” (1968), presentato con successo alla Mostra del cinema di Venezia; “Capricci” (1969), “Don Giovanni” (1970), “Salomè” (1972), “Un Amleto di meno” (1973) cercò di rompere le distanze tra cinema e teatro, riuscendovi a proporre ibridi che avevano, e hanno, il fascino non di una scommessa ma di una sfida, spesso vinta. In tv, Carmelo è andato avanti con esperienze singolari, ad esempio con il disegno di togliere il grigio abbondante nelle immagini e arrivare al bianco e nero, un esercizio di stile per il suo Majakovskij ripreso dal teatro.
Del tutto diversa, rispetto a Grifi e a Bene, la voglia, la ricerca di cinema in Simone Carella, meno conosciuto, e più aperto, più capace di usare la sua libertà sperimentale. Da far coincidere la sua biografia personale con i suoi lavori, densi di film, proiezioni. Era lui il protagonista di un percorso mai raccontato come si deve. In fondo anche Carmelo Bene che era il più grande, oggi è diventato piccolo, nessuno o pochi se ne ricordano. E’ fermo da anni un grosso libro, non so se grande, sul capo riconosciuto della avanguardia che se n’è andato agli inizi degli anni 2000: frutto di un convegno torinese, composto da molti interventi, fra cui il mio. E’ bloccato da una vertenza tra i familiari, mogli, ex mogli. Una seconda morte per lo spavaldo, provocatorio Carmelo “celebrato” persino dal “salotto tv di Maurizio Costanzo” (lo si può vedere su youtube).
Non succederà nulla di tutto questo a Simone. Come scrivono le commemorazione sfuggenti, archivistiche, dei giornali, è stato “fautore” di spettacoli coraggiosi, “volto” della scena del nuovo teatro italiano dagli anni Sessanta fino a oggi. Nato a Carbonara di Bari il 27 novembre del 1946, la passione arriverà da ragazzo, a Roma, regista barese naturalizzato romano…
Non sarà mai Carmelo o Leo De Berardinis, Simone, anche lui pugliese, perché era, è un’altra cosa. Agiva come se una macchina da presa lo seguisse, registrando l’organizzazione della sua vita. Abitava in un soppalco sul Beat 72, in via Belli, nei pressi di piazza Cavour. Dormiva in un “comodo” loculo proprio sopra la porta di ferro del teatrino, il più famoso delle avanguardie abituate a ex stalle di Trastevere, Porta Portese, e altre periferie abitative nella vecchia gran madre de Roma. Il teatrino era sottoterra, come era sottoterra quello di Mario Ricci, burattinaio e burattino in carne e ossa con i suoi attori all’Abaco, cantina sotto il livello del Tevere, con il Beat 72 (data di nascita) temeva esondazioni che non sono mai avvenute, a inabissarli è stata la memoria di tanti che si dicevano loro amici.
Ma parliamo a corpo freddo, di Simone. Aveva un’aria calma, quasi sognante, era artista e organizzatore in nome dell’arte, insieme ad un altro bel tipo, Ulisse Benedetti, un impresariuccio intelligente, paziente, pronto a tutto, nel traffico di gruppi e di talenti che andavano a battere alla sua porta inesistente.
Filmava Simone? Certo. Rovesciava la situazione, era il suo teatro a succhiare vita dal cinema. Era sempre circondato da una marea di ragazzi de vita e d’attesa per l’arte, che chiedevano udienza, comprensione, aiuto. Pasoliniani? Nei temi di “Accattone” era inevitabile dopo la Roma della “Dolce vita”.
Sapevo poco o nulla di Simone e Ulisse (quando nelle mie peregrinazioni teatrali o nei film studio trasteverini, mi avvicinai a loro). I due picari avevano una strana famuccia che calamitava i critici e curiosi delle testate romane, gente balorda sempre a caccia di glamour e stracci negli anni della dolce vita e anche dopo. Gentaglia sprezzante e affamata da news, proveniente dalle bancarelle della gultura con la g, generone romano.
Chiesi di loro, e di Simone mi dissero, sprezzanti: “E’ figlio di un macellaro…” . Non mi pareva, volli approfondire. Figlio o non figlio, noni pareva. Fu con me come era con tutti: gentile, misurato di parole, felice che frequentassi il tempio di Carmelo, il compare pugliese. Non avevo nessun interesse per le sue origini, le provenienze, le “scuole”. Imparai, conoscendolo, la spinta di una carriera cominciata nell’arte, nella droga amorosa dell’arte, a cui aveva puntato da quando era impiegato, come fattorino, presso la sartoria di Roberto Capucci, sarto di taglio artistico, fascinoso e inventivo, abiti creativi, sfilate fantasiose, geometrie in movimento.
Il fattorino faceva. Incontrava ragazzi che lo portarono al Testaccio, al Teatro Dioniso di Giancarlo Celli, regista. In quel periodo, anni Sessanta, fiorivano i registi, gli artisti, improvvisati, avventizi, folla di giovinastri innamorati di Pasolini , Accattoni di varia specie, invidiosi senza odio di Franco Citti, con il fratello Sergio borgataro di eccezione. Erano gli anni del gruppo di devastatori Gli Uccelli che andavano a rompere le uova nel panieri, fin in case d’aristocratici di mestiere, lo scrittore Alberto Moravia e altri… Creavano incidenti contestativi e Simone si avvicinò, ma era un diverso sul serio.
Foto e pellicole di vita. Simone cercava una creatività che si avvicinasse a spettacoli o non spettacoli, a film, sequenze. fatti con poche cose, in un ingordo assemblaggio tra pittura, scultura, istallazioni, miracoli visivi…Un lungo elenco. Per una cantina con soffitta da trovare, visitare, in cui scegliere, capire, catalogare, presentare, dare a quel che si trova o troverebbe (credo molto) quel che merita, non bastano le foto e le locandine.
L’attività crebbe, si dilatò a divenne una piccola e prestigiosa mecca per registi e altri avanguardisti, sognanti o concreti, tra questi Giuliano Vasilicò e Memè Perlini, Bruno Mazzali, Victor Cavallo (l’attore, il poeta con la bandiera rivoluzione), Giorgio Marini, Alvin Curran…
Il Film Studio, a Trastevere, poco lontano, era fuso in Simone che cominciò a collezionare e a conservare. Da qualche parte salterà fuori questo patrimonio che Simone, chiuso il Beat 72, trasferì in una televisione affidata all’etere, colma di documenti, interviste, sue e degli amici.
Simone era dietro e davanti a tutti costoro. Un cinema continuo. Il teatro e tutti gli spazi trasformati in set. Con Ulisse, si rimboccò la fantasia e si lanciò, si lanciarono, loro artefici del minimalismo, nel kolossal del Festival dei poeti a Castel Porziano, versi e botte, fra danze e amore, un sabba nella sabbia fino all’alba.
Ecco il mio breve ricordo di Simone, cineasta globale. Non aveva paura. Giocava con serietà. Saliva dalla cantina ai tetti della città con sempre nuovi giovani, cercando nuovi spazi, nuova aria, facendo ambiziosi show in gara con le stelle.
Ecco cosa faceva Simone che forse era figlio di un macellaio o forse, come raccontava lui, di un padre, “…di uno che vive in Venezuela facendo l’avventuriero”. Ecco Simone, l’avventuriero tra la luce del giorno e quella delle notti, con o senza cielo, il cielo in cantina, l’occhio nell’obiettivo.