Sing: recensione in anteprima
Probabilmente non un vero e proprio antidoto all’epoca dell’esasperata competizione dei talent show, ma Sing riesce comunque a dire qualcosa d’intelligente tra un brano di Frank Sinatra e un altro di Carly Rae Jepsen, passando per i Gipsy Kings
Buster Moon è un koala che da piccolo rimase folgorato: la magia del teatro lo rapì presto e da allora non lo ha più lasciato. Lo vediamo lì intento a recitare le proprie memorie, quelle di un grande impresario che ha fatto la storia, portando sul palco opere magnifiche. La realtà invece è che Moon non ha nemmeno i soldi per pagare tecnici ed elettricisti, malgrado, questo sì, possieda un teatro tutto suo, lo stesso che gli cambiò la vita. Certo, possiede per modo di dire: chiaramente il terreno appartiene a una banca, che lo pressa dato che gli affari non vanno per nulla. Però Buster ha un’idea: perché non indire una sorta di talent show con montepremi annesso? Peccato che la sua non freschissima segretaria, un’anziana iguana, premurosa ma per lo più suonata, commette un errore ed al posto di mille digita centomila dollari: manco a dirlo, si presenta mezza città.
Sing è un trionfo di musica pop attraverso i generi che vanno per la maggiore oggi, fieramente crowd-pleaser nel suo approccio a una materia che non ha ancora fatto il suo tempo, ovverosia il desiderio di sfondare. La chiave di lettura però è leggermente diversa, intrisa di ben meno cinismo rispetto a film che trattano temi analoghi, sì conciliante ma che al tempo stesso ha da dire qualche cosa su quest’epoca dei talent. Un periodo in cui è andata smarrita la ragione per cui le persone sono così legate alla musica, e ancor di più per cui vogliono avere un ruolo in tutto questo. Vale per la musica così come per altre arti e settori, in maniera trasversale: cosa si cerca quando si ambisce il successo? Lasciando da parte tutte le implicazioni di carattere autoriale, che comunque affiorano attraverso il personaggio di Ash, un riccio rocker femmina che inizialmente non vuole piegarsi all’idea di cantare cose come Call Me Maybe, il punto sta proprio nella contrapposizione tra popolarità e passione.Gli animali antropomorfi di Sing sono quasi tutti dei cantanti nati, portatori di un dono che esercitano nelle loro specifiche quotidianità, ciascuno quindi a seconda del contesto nel quale opera. Nessuno, a parte lo spavaldo topo Mike, pare essere cosciente del proprio talento ed infatti l’incertezza, la paura di non essere all’altezza la fa da padrone; ma il desiderio di cantare, quello no, non viene meno mai, che ci si trovi a fare il palo durante una rapina, a casa mentre si lavano i piatti o in occasione del compleanno del nonno. È un lato di Sing che informa tutto il resto, contribuendo alla spensieratezza generale del film, di per sé piuttosto caloroso ed ammiccante con quel suo entrare ed uscire dai brani più disparati, musical comunque sui generis, dato che quando si canta lo si fa sempre perché c’è una ragione per farlo, non in maniera estemporanea e surreale come vuole certa tradizione.
Una revisione del sogno americano se vogliamo, necessaria perché, esista ancora o meno, oggi si tende a non credere più a certe cose: il vero successo sta nel riconoscere il proprio talento e, se possibile, metterlo a servizio degli altri. Sing infatti si ferma un attimo prima dell’immancabile capovolgimento che conduce dalle stalle alle stelle; Moon è uno che la musica ce l’ha nel sangue ma che al tempo stesso viene travolto da tutta una serie di sciagure che mettono a dura prova il suo viscerale ottimismo, altro elemento di matrice spiccatamente americana. Anche stavolta: la vera sfida consiste nel capire quale sia il proprio posto, dopodiché tirare dritto «no matter what». Esortazione di fondo un po’ naïf, certo, ma che non si può così sbrigativamente tacciare di faciloneria, perché in fondo l’argomentare è un po’ più profondo di così. E quel che più conta è che venga veicolato attraverso un pezzo d’animazione divertente e foriero di un discreto intrattenimento.
Chiaro che quando Hollywood racconta storie di questo tipo emerga una certa perplessità, perché in fondo è una critica a sé stessa, all’arrivismo sfrenato, la contraddizione di un sistema che privilegia il risultato a tutto il resto, risultato che quasi sempre si traduce in profitto. I più piccoli, bontà loro, non coglieranno certe implicazioni ma siccome Sing non si rivolge solo a loro, i più smaliziati tra gli adulti potrebbero pure storcere il naso per questa ennesima ripassata auto-inflitta, senza che ovviamente nulla cambi nelle dinamiche dell’industria dell’entertainment. Positivo però è quello che invece i più giovani potrebbero ricavare, cioè il consiglio a cimentarsi in qualcosa senza dover chiedere il permesso per farlo, come accade alla stragrande maggioranza di coloro che scambiano la propria passione per il proprio mestiere, quando invece raramente le due cose coincidono o anche solo si sovrappongono – si veda alla fine come viene occupato la pecora Eddie, giovane senza né arte né parte che viene da una famiglia oltremodo benestante).
La portata di Sing va perciò valutata anche in base al suo essere inserito nel tempo in cui è stato partorito, sebbene le origini del progetto risalgano a cinque anni fa. Di base il senso è portare al cinema grandi e piccoli facendoli divertire, affidandosi ad intuizioni e formule oltremodo rodate: gli animali antropomorfi, le canzonette che ascoltiamo in radio, su YouTube, Spotify e dovunque, il tema della scalata al successo declinato secondo il vecchio ma narrativamente ancora sostenibile schema del sogno americano e via discorrendo. Chris Meledandri, Garth Jennings e soci riescono poi ad amalgamare il tutto più che dignitosamente e quel che ne viene fuori è piacevole da guardare ma anche da ascoltare, senza nemmeno fare troppo chiasso.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”7.5″ layout=”left”]
Sing (USA, 2016) di Garth Jennings. Con Matthew McConaughey, Reese Witherspoon, Tori Kelly, Scarlett Johansson, Seth MacFarlane, Taron Egerton, Nick Kroll, John C. Reilly, Jon Robert Hall e Jen Faith Brown. Nelle nostre sale da mercoledì 4 gennaio 2017.