Skyscraper: recensione del film con The Rock
Cucito su misura per lui, Dwayne Johnson spadroneggia in un nuovo estremo, assurdo action che solo lui sa reggere. Skyscraper è l’intrattenimento familista in quegli USA che non hanno mai smesso di guardare al protestantesimo come fonte privilegiata
Era il 2015, non molto tempo fa, e nelle sale usciva uno degli svariati disaster movie made in Hollywood, ossia San Andreas. Anche lì il protagonista era Dwayne Johnson “The Rock”, ma le analogie non sembrano limitarsi a questo. Mettendo da parte il peso specifico di quel prodotto, oltremodo modesto a prescindere da contestualizzazioni e affini, vi è un fil rouge che lo lega a Skyscraper, lavoro di segno diverso quanto al genere, simile invece per portata. A ‘sto giro Johnson è Will Sawyer, veterano ed ex-membro dell’FBI, che ha perso una gamba nel corso di un’operazione di recupero finita male. Nel film ci viene mostrato tutto ciò che serve, tanto che, “grazie” al disdicevole evento, il nostro conosce la sua futura moglie. Con lei e le figlie, anni dopo, si trasferisce ad Hong Kong, dove un importante e visionario magnate ha costruito il grattacielo più alto ed avanzato del mondo, chiamandolo Skyscraper; a Sawyer, impiegatosi nel ramo della sicurezza, spetta ingraziarsi il ricco genio per poter ottenere, dopo mesi d’impegno, l’affidamento dei lavori.
A questo punto ci si chiede cosa significhi quel rimando a San Andreas di cui in apertura, il che è presto detto. Come allora, non si può, né conviene guardare a ciò che ci viene messo immediatamente sotto il naso, cercando piuttosto di interpretare certi passaggi, cogliere certi piccoli input che si rivelano essenziali. E dire che il titolo del film è già indicativo in tal senso: per i meno anglofoni, Skyscraper si può dire di qualcosa che, letteralmente, “gratta” il cielo, perciò toccandolo. Ad un certo punto l’aspetto in questione emerge pressoché esplicitamente, quando si parla appunto di questo progetto come di un tentativo di sfidarlo il cielo, analogamente all’uomo che costruì la Torre di Babele. L’apice, la camera segreta a cui nessuno ha accesso, viene chiamata Paradiso e, attraverso un gioco di schermi e pannelli, ti consente di ricreare attorno a te un ambiente in cui praticamente sei sospeso nel vuoto.
Prima di indulgere su questa chiave interpretativa a carattere vagamente biblico, proseguiamo con l’offrire qualche cenno narrativo. Sawyer, chiaramente, ottiene la commessa, che si rivela essere in buona sostanza una trappola: qualcuno infatti sta cercando di manomettere il grattacielo, avanzatissimo a tal punto che funziona, volgarmente, come una sorta di super-appartamento domotico, quindi controllato in ogni sua parte elettronicamente. Il villain è tale Kores Botha, il quale non ha però considerato che là dentro c’è pure la famiglia di Sawyer, per la quale quest’ultimo fa cose che vanno oltre l’umanamente consentito. Questa è perciò la parte in cui si chiarisce l’ovvio, per cui la mancata verosimiglianza, per non dire l’assurdità di certe scene, non può né dev’essere attributo sufficiente per squalificare un prodotto concepito per muoversi lungo questo filo di surrealismo post-moderno spinto, volto perciò, tra le altre cose, a reiterare l’entità, la caratura del personaggio The Rock, novello Chuck Norris, perché in questi anni qui non si può semplicemente essere dei duri di Hollywood come lo furono negli action d’antan attori come Bruce Willis o Mel Gibson (l’unico che si avvicina a questi due, oggi, è Tom Cruise).
Perciò non può fare specie che una persona che vive con una protesi dal ginocchio in giù riesca a saltare da una gru a centinaia di metri d’altezza, col risultato di aggrapparsi pulito, tutt’al più indolenzito sul fianco. La sagra dell’assurdo è parte integrante di questa giostra, sulla quale, accettate certe condizioni, non è così malvagio salire. Anzi, ci si sale addirittura volentieri. La struttura classica, che non risente qui di alcun aggiustamento, tutt’al più l’ovvio adattamento al tipo di soggetto, una volta tanto asseconda quell’ambizione più e più volte frustrata di fare dell’intrattenimento sacrificando un po’ tutto il resto, per l’appunto riuscendoci. La missione, d’altronde, non è mai solo quella di mettere in salvo la famiglia, sebbene il catalizzatore delle motivazioni di Sawyer sia principalmente quello; si tratta come sempre di fare la cosa giusta, di sventare l’azione terroristica di turno, un terrorismo che non viene mai evocato direttamente in quanto diverse sono le istanze che ne muove l’operato, ma che non di meno si rifà al medesimo intento di sabotaggio al fine di ottenerne un guadagno – se Dio vuole, guerre sante et similia ce le siamo tolti di mezzo, almeno per un po’.
È chiaro che se ci troviamo ad assistere alle gesta del buon Johnson, ricollegandoci a quanto evidenziato sopra, non è per i rimandi alle Sacre Scritture ma forse nemmeno in relazione al suo essere un action smodato ma essenzialmente familista. Vogliamo godere di questo personaggio appeso con una mano mentre tra i suoi piedi e il terreno ci sono un numero spropositato di piani, della sua capacità di escogitare soluzioni estreme, volutamente sopra le righe, manco fosse Tomb Raider o chissà quale altro videogioco, in cui il nonsenso di certe situazioni viene in qualche modo smussato dalla necessità di un tempismo perfetto, del tipo che se ritardo di mezzo secondo nel compiere una determinata azione vengo tranciato in chissà quante parti. Si tratta in questo senso di un’operazione consapevole, che può non essere accettata in quanto si preferisce guardare qualcos’altro ma i cui exploit, come già accennato, non possono essere presi a pretesto per sminuirne più di tanto la resa. Pensare infatti che, per così dire, ci si prenda sul serio, rappresenta un equivoco mica da poco, infondato a dispetto ci certe alti implicazioni, difatti tutto fuorché immediate. Da qui l’impiego di The Rock, che incarna perfettamente una certa indole, che guarda all’impossibile col disincanto di chi sa che certe cose deve trasmetterle tra il serio e il faceto, implementando un linguaggio che, furbescamente, si fa beffe di toni altisonanti, chinandosi verso l’interlocutore anziché pretendere che sia quest’ultimo ad elevarsi.
D’altronde Skyscraper diverte, assolvendo alla sua forse unica ragion d’essere, al contempo veicolando quanto basta certi leitmotiv per cui, oramai è innegabile, là fuori c’è un pubblico. Il botteghino, piaccia o meno, ha come sempre l’ultima parola, ma se immaginiamo un double bill con San Andreas, viene fuori che qualcuno ha intravisto, dati alla mano, una nicchia tutt’altro che angusta all’interno della quale Hollywood può muoversi con discreta libertà, inoculando l’action contemporaneo, nel bene o nel male, insieme a un sottotesto che tiene conto di un’America, o per meglio dire Stati Uniti, che dopo l’euforia per Obama si è riscoperta conservatrice, non perché prima non lo fosse ma perché fino a qualche tempo fa non era forse chiaro con altrettanta intensità. Ecco allora il senso di quel finale di Skyscraper, speculare a San Andreas, per cui dopo la disfatta, la distruzione non resta che dirsi: «ricostruiremo da capo». Quell’impeto così smaccatamente americano e americanista che inneggia alla volontà di superamento, allo sfidare sé stessi prima e la natura dopo, contro tutto e contro tutti.
Un messaggio apparentemente tanto positivo nell’esito, quanto probabilmente ingombrante nelle modalità attraverso cui prende corpo, ma che nondimeno ha il merito, a prescindere da qualsivoglia giudizio, di mantenere una propria specificità, non solo culturale ma ancor più di mezzi, per così dire: prodotti come Skyscraper, infatti, nascono e muoiono in sala, a prescindere da ogni strato di discussione aggiunto. Lì, nel tempio, ha senso prendervi parte, forse addirittura come ultima soluzione al mantenimento di un rito la cui celebrazione è sempre meno scontata. A suo tempo, tolte le immancabili eccezioni che già esistono, si potrà magari provvedere ad attrarre anche attraverso forme di spettacolo un po’ più sofisticate. A quanto pare, non è questo il momento.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]
Skyscraper (USA, 2018) di Rawson Marshall Thurber. Con Dwayne Johnson, Neve Campbell, Pablo Schreiber, Chin Han, Roland Møller, Byron Mann, Elfina Luk, Kayden Magnuson, Hannah Quinlivan, Kevin Rankin, Noah Taylor, McKenna Roberts e Darryl Quon. Nelle nostre sale da giovedì 19 luglio 2018.