Sogno Fellini e Fellini sogna con me: 1200 copie di Luca Pasquale Medici detto Checco Zalone
Vent’anni fa, il grande regista se ne andava, lo sappiamo: ebbe successo ed è ancora molto amato; noi oggi abbiamo Checco Zalone
Andrò a vedere il film di Luca Pasquale Medici in arte Checco Zalone. Mi piace il titolo: Sole a catinelle. Il nostro non è stato in passato il Paese “dò sole”? Lo è stato e lo è ancora. Ma è cambiato ‘o sole. Ieri era smaltato, caldo e capace di accendere d’amore le vene degli italiani. Oggi è caldo umido, mescolato a piogge che vengono già a catinelle. Piscio. Un caldo umido, soffocante, che distrugge le nostre tradizionali stagioni e ci sta strangolando con rovesci monsonici, importati dall’Asia, insieme a migliaia di immigrati silenziosi scampati al Titanic permanente di Lampedusa o morti doc, in foto e fosse comuni dopo essersi sciacquati nel Mediterraneo velenoso.
Andrò a veder il film di Checco in punta di piedi. Faccio così quando si tratta di frequentare un fenomeno più che un attore-autore, poiché i film di Checco sono oggetti di culto o di vituperio o di ponziopilatismo. Lo si vede anche dalle reazioni dei critici a questo “Sole a catinelle”. Paolo Mereghetti, suadente, cult, sul Corriere ci va cauto, come sempre; le sue predilezione sono altre, vanno nella direzione del vecchio e caro cinema d’autore, vuole testi, immagini, recitazioni, regia composte, serie, al massimo con sole a sbilenco. Come un profeta del passato, un missionario del domani.
Marco Giusti, che D’Agostino in Dagospia ha battezzato come il portatore di un “cinema dei giusti”, invece ci va giù col machete del consenso. Ama Checco. Non ci si può stupire perché il simpatico Giusto è convinto di essere nel giusto nello stracult degli eccessi, in attesa forse che il cinema “cessi” del tutto, secondo l’antica logica delle avanguardie storiche o futurizzate.
rioso di vedere “Sole a catinelle”, soprattutto per il numero delle copie circolanti nelle sale cinematografiche in attesa di sopravvivenza nella catastrofe degli incassi in continua diminuzione; mentre crescono gli “incazzi” degli spettatori delusi, pare sempre più delusi in tempi di crisi e di cinema in svalutation. Sarei curioso quante furono le copie distribuite de La Dolce Vita di Federico Fellini (che ricordiamo con emozione immutata) tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Le sale erano numerose, la televisione non aveva ancora vinto la sua battaglia di consensi a spese del vecchio e caro cinema; gli spettatori a milioni andavano a vedere Fellini e i film della commedia all’italiana, i western spaghetti, i comici; e, per quanto i film stranieri, gli italiani di ogni età frequentavano soprattutto Hollywood, i francesi, gli inglesi, i divi, i grandi divi, sempre di zecca. E adesso? Non saprei dire, mi documenterò.
Ho l’impressione che il dato delle 1200 copie sia significativo al di là della qualità del film, e del divertimento che il prode Checco, beniamino, può garantire. Significativo dell’ansia, se non della disperazione, dei commercianti del cinema atterriti da sale vuote come spelonche, o disertate come le parrocchie di un’Italia secolarizzata.
Ho l’impressione che, in questo senso, il dato abbia un curioso valore o disvalore non calcolato,cioè che le 1200 siano il sintomo di un punto di grande importanza. Lo dico ad alta voce. Perché mi piacerebbe che fosse una festa. Ovvero, che le sale si riempissero, diventando il volano per un pubblico ri-conquistato dal cinema nel suo pluralismo, nella varietà delle forme e delle proposte.
Ho l’impressione (3), inoltre, che il film possa essere letto comunque come un urlo di dolore. Mescolato a riso amaro, risate amare. I giornali scrivono infatti, con domande ansiose: “nel Paese della crisi, delle tante crisi, la risata ci salverà?” E i critici patriottici si schierano pro o contro. Le battaglie in Italia si combattono sul fronte del riso amaro, spazzando via spazzatura. Lo spero, ardentemente; mi piace ridere, ridere fa bene, come bere il latte (e la memoria torna al Fellini e ad Anita Ekberg in “Boccaccio 70). “Bevete più latte”, diceva Anitona dalle grandi tette, scandalizzando Peppino De Filippo.
Andrò a vedere Checco, e poi vi dico. Voglio trovare sale piene, altrimenti mi sfiducio. Checco vinci, non voglio che tu sia l’ultima spiaggia di un cinema che fu di Fellini & C, una ditta gloriosa, e che purtroppo non è più. Mah, chissà. Compro un ombrello da un emigrante sotto casa e affronto le catinelle del cinema.